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TESTO Benedite il Signore, voi tutti suoi servi

don Walter Magni  

IV domenica T. Pasqua (Anno A) (07/05/2017)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Il Vangelo di questa domenica ci regala un'altra immagine biblica che ci aiuta ad approfondire il significato di Gesù risorto, che stiamo celebrando solennemente in questo tempo di Pasqua. È un'icona che ci è particolarmente cara, che la sollecitudine pastorale della Chiesa ha legato alla Giornata di preghiera per le vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata in tutte le sue espressioni.

"Io sono..."
Come è stato detto: "faremmo un torto alla Bibbia, ai testi che abbiamo ascoltato, se oggi accomodessimo affrettatamente l'immagine del pastore buono alla figura dei preti, dei consacrati" (d. Angelo Casati). C'è una rivendicazione d'assolutezza da parte di Dio, da parte di Gesù su questa immagine del pastore, quasi la rivendicazione di un marchio che appartiene in pienezza solo a Lui, quasi un invito a non usare il nome di Dio invano, cioè a sproposito, a non usare il nome del pastore a sproposito. Per ben due volte in questo brano Gesù dice di Sé: "io sono il buon pastore". La forza di questa affermazione va raccolta. L'esplicita identificazione di Gesù con l'icona biblica del Pastore buono, va rispettata. S'intuisce la stessa carica di quando, dal roveto ardente, il Signore regalava il Suo nome a Mosè, dicendo: "Io sono colui che sono" (Es 3,14-15). Dobbiamo, dunque, fare molta attenzione ad applicare con eccessiva leggerezza l'immagine del pastore che Gesù rivendica così intensamente a Sé ai pastori delle nostre chiese. C'è una distinzione che va rispettata e talvolta c'è una distanza che va rilevata. Potrebbe essere questa l'occasione per rilevare quanta bontà e quanta bellezza passano attraverso l'insieme delle nostre azioni pastorali. Quanta bontà, quanta bellezza sanno trasmettere ancora? Scrivevo a don Alberto che presto diventerà prete: "la gente ti annuserà per capire di che odore sei. Che tipo sei. Papa Francesco dice che dobbiamo avere l'odore delle pecore. Tu ricorda sempre che tuo primo impegno è diffondere "il buon profumo di Cristo" (2 Cor 2,15)".

"Il pastore bello"
Dunque è importante accorgersi del fatto che Gesù, con questa affermazione, sta esplicitamente dichiarando la pienezza della Sua condizione divina. In che senso? Se dovessimo tradurre con maggior precisione quanto Gesù sta dicendo non dovremmo dire: "io sono il buon pastore", ma "io sono il pastore buono". Spostando l'attenzione anzitutto sul pastore che sulla sua bontà. Se l'evangelista Giovanni avesse voluto parlare della bontà di Gesù avrebbe usato il termine agazós (buono); invece ha usato kalós, bello. Perché intendeva affermare che Gesù è il pastore autentico, il pastore vero. Gesù, non è tanto preoccupato di affermare la Sua bontà, ma propriamente la Sua identità di pastore divino, di pastore vero. Perché attorno a Lui circolavano ben altri pastori, con l'aria più del mercenario che del pastore. E il mercenario, se "vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore".
Come aveva già detto Ezechiele al cap. 34. Anche là il Signore rimproverava i pastori del Suo popolo, che anziché prendersi cura del gregge loro affidato, pensavano ai loro affari e a se stessi. Così scatta una profezia: "verrà un tempo in cui io stesso mi prenderò cura del mio gregge" (Ez 34,11). Gesù, dunque, mentre parlava del pastore, voleva dire che il tempo della cura da parte di Dio del Suo gregge era finalmente arrivato. Così si comprende la reazione dei capi dei sacerdoti e dei farisei, che sentendoLo parlare così si arrabbiano, sino a definirLo un indemoniato, uno che è totalmente fuori di sé. (Gv 10,19-21).

Forte e tenero ad un tempo
Ripercorrendo, dunque, il senso evangelico della metafora del pastore, siamo lontani da una certa iconografia sdolcinata del Buon pastore. Come se Gesù fosse uno che avanza in modo leggero. Come se stesse facendo una passeggiatina, portandoSi una pecorella sulle spalle. La vita di Gesù non è mai stata una passeggiata. Ha dovuto affrontare il lupo, che rapisce e disperde le Sue pecore; ha affrontato, guardandoli in faccia, tanti mercenari. Compresi quelli che si presentano come pastori, ma sono interessati a ben altro. Gesù per difendere le Sue pecore ha persino affrontato la morte, come dice il profeta: "ucciderò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse" (Zc 13,7). Quanta fortezza, quanta decisione in Gesù. Ma anche quanta tenerezza. Quando consolava e fasciava le ferite della vita della gente e alleggeriva i loro pesi, quando altri aggiungevano peso a peso. Quando rallentava il passo perché nessuno del gregge rimanesse indietro, neppure i più deboli. Sono la fortezza e la tenerezza che dicono la tempra del pastore vero, dei nostri pastori. Quando dovessimo implorare da Dio dei pastori per le nostre chiese, chiediamo che la loro umanità sia carica della fortezza e della tenerezza propria di Gesù. Per loro Signore ti chiediamo passione, per loro ti chiediamo che sappiamo trasmettere qualcosa della tua santità.

 

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