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TESTO Indugia ai volti

don Angelo Casati  

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Anno A) (29/01/2017)

Vangelo: Lc 2,22-33 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 2,22-33

22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – 23come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.

25Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:

29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo

vada in pace, secondo la tua parola,

30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,

31preparata da te davanti a tutti i popoli:

32luce per rivelarti alle genti

e gloria del tuo popolo, Israele».

33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui.

"Portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore": così racconta Luca nel suo vangelo. Era scritto nella legge che ciò avvenisse per ogni primogenito e il rito sottolineava la sacralità di ogni creatura, la sua appartenenza a Dio. Che te ne faceva dono. Starei per dire che Maria e Giuseppe, con la loro offerta, quella dei poveri, in modo ancora più esplicito - oserei dire - rendevano evidente che quel figlio non l'avevano comprato, non era diventato loro possesso, era un dono di cui essere grati, lo avrebbero accompagnato. Era loro figlio, ma era anche altro: guardandolo in profondità, avrebbero visto in lui, sempre, il mistero che lo abitava.

Un mistero che non apparteneva a loro, sconosciuto a loro, mistero che sarebbero stati chiamati a riconoscere e a rispettare. Qualcosa di quel mistero, come un bagliore di luce, quel giorno si aprì ai loro occhi per via di quell'incontro inatteso nel tempio. Nelle parole di Simeone - parole commosse, gli occhi che brillavano per la lunga attesa - era stato loro detto che quel bambino sarebbe stato la "gloria" del suo popolo e una "luce" per tutte le genti. Rimasero folgorati, stupiti.

Era come se si aprisse loro una fessura. Era una sosta al mistero.

Ebbene, perdonate, è come se l'immagine di Giuseppe e di Maria che portano il loro bambino al tempio mi avesse risvegliato immagini e immagini della mia vita di prete, immagini di madri e di padri che portano al battesimo i loro neonati. E, nello stesso tempo, mi è riaffiorato alla memoria un testo di un teologo psicanalista tedesco, che eravamo soliti premettere, come una specie di introduzione, al rito, e che vorrei ora leggervi:

"Quando portiamo un bambino in chiesa a ricevere il battesimo vogliamo rendere evidente con questo gesto che un essere umano, che è nato come figlio dei suoi genitori, non deve mai sentirsi soltanto un prodotto di altre persone, il frutto del suo ambiente o il risultato delle aspettative altrui. Egli possiede un proprio io che è scaturito dalle mani invisibili del suo Creatore. In quanto essere umano è un essere che con la fronte tocca il cielo e che ha un cuore grande quanto il mondo. Ed è così che deve poter vivere: libero, grande, pieno di dignità. E il suo nome deve poterlo ricevere nello spazio del sacro poiché anche per lui sono valide tutte le profezie, tutte le promesse dei visionari e dei profeti di tutti i tempi; anche in lui vive e prende forma una tessera della salvezza del mondo. Nessuno intorno a lui avrà il diritto di offuscare questa pura luce di Dio nel suo cuore e nessuno avrà il diritto di oscurare o di sbarrare la strada che lo riporta alle stelle" (Eugen Drewerman, Il Vangelo di Marco).

Ebbene mi sembra di grande interesse che le letture di oggi - che hanno come tema la famiglia - indugino su questo atteggiamento, che dovrebbe avere la massima attenzione in una famiglia - ma non solo! - un atteggiamento cui potremmo dare un nome, il nome di "rispetto". Che viene dal latino "respicere" e sembra alludere a un indugiare nel guardare, un ri-guardare; avere ri-guardo, avere rispetto.

Il libro del Siracide oggi traduceva questo atteggiamento in un verbo, il verbo "onorare". Molti di voi ricorderanno che è un verbo che appare anche in una formula della celebrazione del matrimonio: "prometto di esserti fedele sempre... e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita". E non è - così mi sembra - un'aggiunta inutile o poco importante, perché se non c'è onore per l'altro, per l'altra, per gli altri, la parola amore è una parola pallida, vuota, evanescente, è una maschera.

Il libro del Siracide oggi diceva: "Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare le doglie di tua madre, ricordati che ti hanno generato". Come a dire: "Indugia sulla vita che sta dietro quel volto, dietro quei volti. Ricorda quanto ti hanno dato".

Ma una cosa ancora mi sembrava significativa nel testo: che l'onorare venisse poi allargato nel suo orizzonte. Come se il libro mi dicesse che se io ho un atteggiamento di rispetto per quelli di casa è giocoforza che lo abbia anche per quelli fuori casa; e se io non l'ho con quelli di casa non mi illuda di averlo con quelli fuori. E allora lo sguardo attento, sensibile e generoso si allarga, nel testo: ai ministri di Dio, al povero, a coloro che piangono, agli afflitti. Una generosità totale: "La tua generosità si estenda ad ogni vivente; ma anche al morto non negare la tua pietà".

Perché questa mia insistenza oggi? Perché da più parti si sente alzare come un'accusa: "Oggi non c'è più rispetto". Anche la parola "rispetto" sembra un po' una parola in esilio.

E, a mio avviso - posso sbagliarmi - mi sembra urgente a tutti i livelli una rieducazione al senso del rispetto. Dovremmo più spesso chiederci se una parola è rispettosa, se un gesto è rispettoso, se un programma - non importa se ecclesiale, sociale o politico - è rispettoso.

Ho trovato scritto nell'esortazione apostolica "Amoris laetitia" di papa Francesco: "Ogni giorno, entrare nella vita dell'altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto... E l'amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l'altro apra la porta del suo cuore" (109).

Un rispetto a tutto campo. C'è rispetto nella mia casa, alle persone e alle cose della mia casa? C'è rispetto nella mia città, per le persone e per le cose della mia città, della comunità ecclesiale, della comunità civile, della comunità mondiale? Dove, al contrario, troviamo volgarità e arroganza, scriviamo che lì non c'è futuro, non c'è vita, c'è solo morte. C'è - vorrei aggiungere - solitudine. Tu cominci a vivere da come sei guardato. Guardato con amabilità o no. Troppo doloroso dire: "Mi hanno guardato, ma non si sono accorti di me, né della mia gioia, né del mio dolore, né dell'attesa che porto dentro. Non del mistero che mi abita".

Strappato alla solitudine sono, se sento che l'altro indugia a guardarmi. L'indugio del rispetto. Per la mia vita, per il mio futuro.

 

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