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TESTO Commento su Esodo 17,8-13; Luca 18,1-8

Carla Sprinzeles  

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (16/10/2016)

Vangelo: Lc 18,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù 1diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Oggi la liturgia ci pone al centro della nostra riflessione la preghiera di domanda.
Noi saremmo portati a interpretare la preghiera di domanda come avviene tra persone umane, cioè la sollecitazione a far intervenire qualcuno potente secondo i nostri bisogni.
Questo va in contrasto con la frase del Vangelo secondo Matteo, in cui Gesù dice:"Non moltiplicate le parole, Dio sa già ciò di cui avete bisogno."
Quindi la preghiera non è far sapere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno e sollecitarlo: Dio è già rivolto a noi e opera per noi come creatore.
Noi siamo convinti di pensare e volere il giusto e quando ci accorgiamo che non ne siamo capaci, cadiamo in depressione, ci stanchiamo.
La preghiera è l'esercizio per alimentare la consapevolezza, istante per istante, che non siamo capaci, è il grido di essere creature, è il grido per accogliere la capacità che ci viene dal creatore.

ESODO 17, 8-13
Il passo della prima lettura è tratto dall'Esodo. Gli Israeliti, liberati dall'Egitto, hanno percorso il mare dei Giunchi e il monte Sinai. Durante il percorso avvengono due notevoli episodi: Mosè fa scaturire l'acqua dalla roccia e il popolo di Israele deve sostenere l'assalto armato degli Amaleciti.
Si tratta di contingenti beduini che lottano per il possesso di alcune sorgenti d'acqua.
Il testo presenta uno scenario a due fuochi, ognuno dominato da un protagonista con funzioni diverse: da un lato la battaglia nella valle dove Giosuè svolge il ruolo attivo del combattente, dall'altro l'altura sulla cui cima Mosè indossa le vesti dell'orante.
Non è casuale che lui tenga in mano "il bastone di Dio" con il quale aveva operato prodigi fino alla miracolosa apertura del mare.
Nel nostro episodio, più che il bastone è la preghiera ad assumere un valore primario.
Quando Mosè tiene le mani alzate il popolo vince, quando le abbassa perde.
Non va interpretato in senso letterale, ma figurato, anche perché ogni idea di influsso magico è estranea alla fede israelitica.
L'intenzione primaria è mostrare quale forza abbia la preghiera instancabile e perseverante.
Alla fine apparirà chiaro che il reale vincitore della battaglia è Mosè l'orante e non il guerriero Giosuè.
In tutto il passo non è nominato Jahveh, ma davanti al grande intercessore si intuisce la sua presenza.
Le mani di Mosè elevate al cielo ne sono il segno, vanno intese nel senso di un'azione profetica simbolica, perché Israele comprenda che l'origine della sua forza è la vicinanza con il Signore.
C'è un ultimo particolare da mettere in rilievo. Anche Mosè, quantunque eletto ad essere segno di Dio, mentre stende le mani a implorare riparazione e protezione e a infondere incoraggiamento tra i combattenti, sottostà egli stesso alla debolezza umana.
I suoi accompagnatori Aronne e Cur hanno il compito di sostenere le sue braccia infiacchite nella preghiera. E' una indicazione eloquente come l'incarico affidato da Dio ai suoi collaboratori supera talvolta le forze dell'individuo singolo.
E' suggestivo infine pensare che le braccia alzate in preghiera disegnano una croce e ricordano la potenza delle braccia di Cristo distese sulla croce, potenza che donerà protezione e vittoria.

LUCA 18, 1-8
Il brano di Luca che leggiamo oggi parla di una parabola raccontata da Gesù su un giudice, che fa giustizia alla vedova perché lo importunava in continuazione.
Ceramente non è da prendere alla lettera, cioè facendo corrispondere ad ogni personaggio un determinato messaggio, perché la parabola è centrata su un solo messaggio e quindi gioca attorno a una figura. In questo caso il giudice disonesto non è Dio.
Dio non è sollecitato dalla molestia degli uomini: "Dato che questa è molesta, allora l'accontento, perché non venga a disturbarmi."
Non è una presentazione di Dio secondo il Vangelo.
La parabola è concentrata su questo dato: è necessario pregare sempre.
Il grido della consapevolezza di essere creature è il respiro quotidiano della nostra condizione, in ogni istante occorre accogliere la forza della vita, la possibilità di pensare, di amare, di operare, di essere quello che siamo e di diventare quello che non siamo.
Quindi tra le due frasi di Gesù apparentemente in contraddizione: "Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno, anche prima che gliele chiediate" e "pregate incessantemente" cosa dobbiamo capire?
Occorre pregare ogni giorno: per chi? Perché? Dio ha bisogno delle nostre preghiere? No, dice sant'Agostino, siamo noi a essere nella necessità di rivolgersi al Signore.
Siamo fatti per Dio e non lo sappiamo.
Il nostro destino è spezzettato in mille frantumi che ci attirano verso le persone, cose, situazioni, nelle quali riponiamo la nostra attesa di felicità, ma che sono più piccole del nostro cuore che è fatto per il sommo Bene.
Ne usciamo ovviamente delusi, ma soprattutto ridotti alla misura dell'oggetto desiderato.
La preghiera è invece lo spazio dove il nostro desiderio si allarga all'infinito.
Le distrazioni? Sono le tante diramazioni del nostro desiderio che dobbiamo ricondurre all'unità dell'unico Bene, sono il nostro quotidiano che bussa alla porta per essere evangelizzato.
Spesso sono anche l'immediata risposta del Signore alla nostra preghiera, perché contengono un messaggio sul nostro atteggiamento concreto che ci indica la strada da seguire o da correggere.
Nel mondo in cui viveva Gesù, la vedova era il simbolo della desolazione assoluta, della povertà senza rimedio.
Così siamo noi di fronte a Dio, di fronte al male dentro e fuori di noi: poveri, incapaci di scoprire il bene nascosto dietro ciò che appare come un male.
Pregare è gridare al Signore il nostro desiderio irrimediabilmente sbriciolato, e insieme aprire il nostro cuore perché diventi capace di vedere il Bene offerto in quella situazione.
Pregare è gridare al Signore la nostra fatica, senza la pretesa di vederla scomparire con un colpo di bacchetta magica, ma restando sotto il suo sguardo per trovare solo la forza di starci dentro, di starci con tutti i disperati del mondo.
"Padre perdona loro" pregava Gesù; e questo echeggia in noi come stimolo a portare, a nostra volta, ogni fragilità alla luce della tenerezza del Padre.

La domanda di Gesù: "Ma troverà la fede il figlio dell'uomo quando verrà sulla terra?"non è scontata, fa appello alla nostra responsabilità.
Per cui è bene che ci chiediamo: di cosa mi fido? Della mia capacità, della mia intelligenza, delle mie forze, del potere degli amici. Di chi mi fido? A chi affido la mia vita, istante per istante? A quale forza mi apro? Aprirsi a Dio si realizza solo pregando.
Spero di aver chiarito a me e a qualcun altro il significato della preghiera di domanda e la necessità della preghiera.

 

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