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TESTO Commento su 2Re 5,14-17; Sal 97; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

CPM-ITALIA Centri di Preparazione al Matrimonio (coppie - famiglie)  

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (09/10/2016)

Vangelo: 2Re 5,14-17; Sal 97; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,11-19

11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Le letture di questa domenica ci propongono, in continuità con quelle di domenica scorsa, il tema della fede, ma con una prospettiva diversa, quella della gratuità. Come già era emerso nella parabola del "servo inutile": non possiamo stabilire con Dio un rapporto di "dare e avere" e al quale dobbiamo rendere omaggio nella misura in cui egli fa qualcosa di buono per noi.

Il Salmo 97 recita: "Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto prodigi": il canto nuovo si oppone alla ripetizione, all'abitudine. Dio compie prodigi anche oggi, anche nella nostra vita, nella vita delle nostre comunità, delle nostre famiglie. Il salmo ci ricorda che la salvezza del Signore è per tutti i popoli e quindi si inserisce bene nel mese missionario, la cui specificità è quella di portare la fede che è un seme che va accolto. L'importante è di non stancarsi di fare il bene e di saper leggere il segno dei tempi.

Nella lettera di Paolo troviamo la frase: "se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso", a ricordarci che Dio è fedele al suo dono, anche quando noi gli mostriamo indifferenza. Lui non solo offre la salvezza a tutti, ma la ripropone con pazienza alla nostra indifferenza. Esorta dunque Timoteo a non fuggire la persecuzione, ma a sopportare anche lui la sua parte di sofferenze per collaborare alla diffusione del Vangelo e poter giungere alla piena salvezza.

Sia la prima lettura che il brano del Vangelo ci parlano di malati di lebbra, malattia che presso gli ebrei era considerata un castigo divino ed implicava l'emarginazione dalla società e dal tempio. Due di questi sono stranieri, quindi non credenti. Straniero, nella Scrittura, è a volte il simbolo di colui che cerca la verità, dell'uomo fuori delle vie già tracciate dalle istituzioni tradizionali, il simbolo non dell'abitudine, ma della ricerca che cambia la vita. Gesù ama gli stranieri, perché ama l'uomo che, andando oltre le abitudini religiose, si impegna in una perenne ricerca della verità sempre nuova della fede. Naaman il siro, dopo un primo rifiuto, ascolta i consigli dei suoi servi e obbedisce alle parole di Eliseo, immergendosi sette volte nel Giordano (gesto che ci richiama il battesimo). Naaman è uno straniero che pensava di poter "comperare Dio", ma diventa invece l'emblema del vero credente, si libera dei suoi preconcetti, e professa la sua fede - fiducia - nel Signore celebrando il culto autentico. Egli, come il lebbroso del vangelo, non si limita al solo ringraziamento, ma riconosce Dio come suo salvatore. L'esperienza di Namaan richiama il tema dell'ascolto della Parola che deve essere alla base del rapporto fede e vita; questa relazione è purtroppo spesso carente nelle nostre vite.
I lebbrosi chiedono a Gesù d'aver pietà di loro ed egli si allinea alla prescrizioni della Torah e li invia, ancora ammalati, al Tempio, ma fra di loro c'e un samaritano, uno straniero, un nemico per il popolo di Israele. La malattia e il dolore accomunano ogni uomo, senza distinzioni di religione o di etnia (anche in famiglia l'emergenza può creare solidarietà, almeno all'inizio) e rimuovono le differenze (i 10 erano insieme senza problemi). Ma la salute ritrovata le rimettono nuovamente in piedi: il samaritano si sente nuovamente straniero, non sa dove andare, il "suo" tempio, sul monte Garizim, è raso al suolo, allora torna indietro, fa cioè un cambiamento di direzione e di marcia (è il verbo della conversione, del ritorno a Dio) e torna a ringraziare Gesù, il nuovo tempio. Questa è la fede.
I nove "buoni ebrei" hanno invece osservato la legge, hanno ottenuto la guarigione desiderata, che percepiscono come dovuta per la loro osservanza, e si sentono a posto, avendo già accumulato meriti e crediti davanti a Dio, quindi non obbligati a tornare a ringraziare: prima vanno dai sacerdoti, poi alle loro case. Essi rappresentano molti credenti che, in fin dei conti, sono bravi, buoni, ma per i quali Gesù non è il 'primo', ma viene dopo le 'mie' cose, la 'mia' famiglia, il 'mio' lavoro. Il Samaritano invece non conosce le prescrizioni della legge, e, dunque, non ha titoli per pretendere la guarigione, ma quando si sente guarito prova un moto incontenibile di sorpresa e di gratitudine e sente il bisogno di tornare da Gesù che lo trasforma in modello di fede per gli Ebrei.
All'interno delle famiglie, tra marito e moglie questa attenzione del girarsi indietro per dire grazie e rendere lode a Dio per i doni che ci ha fatto, dovrebbe diventare sempre più una prassi consolidata, non tanto dettata dal dovere, ma dall'amore che abbiamo ricevuto e che liberamente doniamo. La lezione che ci viene dal lebbroso guarito è una lezione di stile di vita, di educazione alla gratitudine che in questo nostro tempo è sempre più dimenticata, convinti come siamo che tutto ci è dovuto e nulla dobbiamo patire o soffrire. "La tua fede ti ha salvato". È dunque la fede la condizione primaria per ottenere da Dio quello che chiediamo, sempre che ciò che chiediamo sia in piena sintonia con la sua volontà di salvezza. "Grazie" è una parola rara, esige un atto di riconoscenza e di amore verso chi ci ha fatto del bene. Ringraziare è anche un atto, un'espressione di tutto il corpo, un coinvolgimento totale nel riconoscimento della grandezza dell'altro. Il lebbroso esprime il suo grazie con il corpo che prima era oggetto di separazione, ma che ora si fa parola per esprimere il suo amore a Dio. Non a caso Papa Francesco inserisce la parola "Grazie" tra quelle che dovrebbero essere ripetute giornalmente all'interno della famiglia, insieme a "Scusa" e "Prego": la gratitudine dell'amore vicendevole che si coniuga con il rispetto e la consapevolezza della nostra fragilità.
Dobbiamo cogliere la profondità umana che lega il ringraziare alla fede. Questa esperienza non è concessa a chi è sempre ripiegato su se stesso, sulle proprie ambizioni, sulle proprie pretese, a chi misura tutto in termini di diritto, di valore economico, di utilità immediata.
Rendere grazie significa sentire la responsabilità di ciò che ci è donato. Oggi solo chi è capace di ritornare sui propri passi sa vedere l'amore di Dio e la disponibilità del prossimo.
È nell'attenzione a ciò che avviene attorno a noi il segreto di un Dio che passa. Non si stanca il Signore di accostarsi a noi, lo fa però senza rumore, mescolandosi tra i volti più ordinari che incontriamo quotidianamente in famiglia, sul lavoro, nella comunità cristiana, nella società civile...
Chiediamo una fede capace di farci entrare in questa prospettiva, così ricca di umanità, per assecondare le intenzioni di Dio.

Per la riflessione di coppia e di famiglia.
- La coppia e la famiglia: chi è l'altro che si può presentare come "samaritano", straniero, diverso? Quali valori positivi gli riconosco?
- L'innamoramento consente di accettare l'altro perché lo si idealizza, il passo successivo, con l'amore, è quello di accettarlo con i suoi pregi e difetti: è il rapporto tra l'ideale e la realtà dell'altro. Nella nostra vita di coppia come sappiamo accogliere l'altro?

Don Oreste, Anna e Carlo - CPM Torino

 

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