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TESTO Commento su Qoelet 1,2; 2,21-23; Luca 12,13-21

Carla Sprinzeles  

XVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (31/07/2016)

Vangelo: Lc 12,13-21 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 13uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».

16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. 20Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

Oggi la liturgia ci propone il tema della sicurezza.
Chi non cerca sicurezza? E' uno dei bisogni fondamentali dell'uomo.
La realtà è che noi siamo portati a cercare la sicurezza nella ricchezza, nei beni, mentre queste sono false sicurezze.
Il messaggio è che dobbiamo crescere come nell'utero della madre, il tempo in questa vita ci è dato per crescere come figli di Dio, imparando ad appoggiarci sul Padre, che ha cura di noi, la morte è paragonata alla nascita.
La crescita nell'utero della vita, è una crescita in cui noi dobbiamo partecipare con l'accoglienza della fiducia a questo Padre, che ci dona tutto, ma aspetta da noi l'apertura ai suoi doni!

QOELET 1,2; 2,21-23
La prima lettura è tratta da Qoèlet. E' un libro scritto da un sapiente di Israele tra il 250 e il 180 a.C intende riflettere in modo critico sull'incontro tra la fede ebraica e le culture ellenistiche.
Ripete ben 38 volte: "vanità", il termine ebraico hebel è il soffio, il vapore che si dilegua.
Lo stesso vocabolo diventa una delle voci per indicare ciò che è futile e vano.
Si deve però sottolineare che non vuole portare né al pessimismo, né al fatalismo.
Al contrario vuole portare a fare assegnamento sull'azione misteriosa e potente di Dio.
Il "soffio" può essere paragonato allo Spirito.
Qoèlet dirà che Dio ha posto nel cuore degli uomini la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine.
Noi diciamo che l'uomo è piccolo e non può contenere la grandezza di Dio!
Comprendiamo, in questo contesto la riflessione sul carattere effimero della ricchezza.
La tradizione israelitica faceva grandi lodi del possesso dei beni materiali, ritenuto segno di benedizione e ricompensa per una vita onesta.
Ma Qoèlet connota impietosamente il destino della prosperità materiale con formule che invitano alla disillusione, quando in modo pungente descrive la miseria che spesso si nasconde in una ricchezza ammassata a costo di ansie infinite, nella ricerca di prestigio, potenza, successo e piacere: parla di "dolori e fastidi penosi", di "un cuore che neppure di notte riposa".
A che vale all'uomo la fatica - un'altra parola chiave di Qoèlet - per sviluppare tutte le energie del suo sapere o per costruire un'opera nella quale egli potrà a stento lasciare un'impronta personale, quando con la morte "dovrà lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato"?
Per di più al fallimento di tutte le fatiche, si aggiunge "l'affanno del cuore", così che tutti i giorni diventano un penoso agitarsi che produce solo dolore e delusione.
Da un certo modo di possedere le ricchezze - avverte Qoèlet -l'uomo può uscire distrutto, ingoiato dal nulla e dall'assurdo.

LUCA 12, 13-21
Il Vangelo secondo Luca che leggiamo oggi, riprende il tema di Qoèlet, parla di cupidigia, di beni accumulati per sé, di granai stracolmi con il quale il ricco possidente terriero pretenderebbe di assicurare la sua vita per molti anni.
"Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi?" diceva un ebreo a Mosè che voleva fare opera di pace tra lui e il suo compagno.
Gesù riprende questa frase per rispondere a uno della folla che voleva farlo arbitro tra sé e suo fratello, per una questione di eredità.
Mosè desiderava rendere giustizia a modo suo, senza riferirsi a "Colui che è", a colui che solo sa che cosa c'è nell'uomo.
Nella stessa maniera, l'uomo che si rivolge a Cristo desidera che giustizia sia fatta come intende lui, e sembra ignorare del tutto il messaggio di Gesù.
Come in tante nostre preghiere, anch'egli usa Dio per i propri fini, senza cercare di capire qual è il vero bene che il suo Creatore gli propone attraverso quella situazione di apparente ingiustizia.
Il Signore non vuole altro che la nostra beatitudine, e per questo ci vuole liberi dai nostri fantasmi di falsa felicità: "Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia", che amputa la nostra vita e la rinchiude nell'effimero.
Ogni cupidigia è un cercare la sicurezza nelle cose che si toccano, è un ridurre se stessi alla materia. Si cerca di tenere tutto, di non perdere nulla, di non morire.
La cupidigia ci spoglia dell'unico valore della nostra vita: l'infinito del suo desiderio, fatto per la felicità di Dio stesso, ci riconduciamo allora a una sola dimensione: "Tu eri dentro di me e io ero fuori" diceva sant'Agostino.
Quando la nostra aspirazione si ferma al creato, muore l'unico luogo in noi capace d'incontrare l'infinito, l'unico punto immortale dell'uomo, fuori dal quale egli è finito, limitato, limitato allo spazio e al tempo.
La cupidigia è fatica e stress, come dice bene la storia dell'imprenditore e del pescatore: vedendo un uomo alle dieci del mattino sdraiato all'ombra della sua barca, l'industriale gli consiglia di tornare in mare per fare un altro guadagno, ma l'altro non ne vede l'utilità.
"Potrai comprarti un'altra rete". "Per fare che?" "Per pescare di più!" "E perché?" "Per mettere su un'impresa di pesce congelato!" "E perché?" "Per guadagnare di più e poterti finalmente riposare tranquillo!" "E che cosa sto facendo ora?" concluse il pescatore.
La cupidigia è un'apparente medicina contro la vergogna che viene dall'accettazione del limite.
"Tu dici: sono ricco, e non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco, e nudo".
Il bambino non ha vergogna, sa di essere bisognoso dell'altro, è libero e felice.
Quando diventeremo bambini? Allora entreremo nel regno, in quella gioia di Dio, che è già in mezzo a noi.
La nostra vita, la nostra gioia non dipende dai nostri beni!

Amici, cosa ci vogliono dire queste letture?
Le persone felici sono quelle che non sono dominate dai beni che possiedono, ma persone che sono capaci di dire: "quello che è mio è anche per te, dove si mangia in uno si mangia in due, e dove si mangia in due, si mangia in tre". Ecco questa è la spiritualità che ci propone Gesù. Quindi non una spiritualità che ci aliena dalla gente, ma una spiritualità che ci immerge nei bisogni e nelle sofferenze delle persone.

 

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