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TESTO Quel cielo può diventare una scusa

don Alberto Brignoli  

Ascensione del Signore (Anno C) (08/05/2016)

Vangelo: Lc 24,46-53 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 24,46-53

46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».

50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Quando a un bambino - che ancora non ne ha la capacità per comprendere - bisogna spiegare la morte di una persona cara cui era particolarmente legato, indubbiamente si fa una grande fatica. E tra le spiegazioni meglio riuscite, c'è senza dubbio quella della partenza per il mondo di lassù: "È andato in cielo, con Gesù". Salvo poi sentirsi rispondere: "Ma quand'è che torna dal cielo?", oppure "Se Gesù è in cielo con il suo papà e la sua mamma, che bisogno c'era che chiamasse lassù anche la mia nonna?". In effetti, le obiezioni non fanno una grinza: quel Gesù che chiama a sé le persone, che bisogno ha di tenerle con sé definitivamente, sapendo, magari, che spesso si ha ancora tanto bisogno di loro qui, sulla terra, mentre lassù ci sarà pure l'eternità, ma il rischio che si annoino è elevato? Sembrano domande da bambino, eppure qualche interrogativo di questo tipo noi, come Chiesa, da sempre ce lo facciamo, quando vediamo Gesù, lo stesso Gesù in persona, salire in cielo e lasciarci qui da soli a tirare avanti la nostra e l'altrui umanità per tutto il resto della durata della storia. I primi cristiani se lo sono chiesti con una certa insistenza, anche sulla scorta di affermazioni del Maestro che lasciavano intuire una sua partenza dalla scena di questo mondo (com'è ovvio che fosse), ma anche un suo imminente ritorno, volto a "sistemare tutte le cose", a mettere a posto ciò che rimaneva da fare e che i suoi trentatré anni di vita terrena non gli avevano consentito di portare a compimento.

Il tema del ritorno del Signore, infatti, era molto presente nella predicazione e nei primi scritti della Chiesa apostolica: tutto era dato per così imminente che spesso si giungeva ad atteggiamenti rinunciatari e passivi di fronte alla storia, soprattutto quando si vedevano catastrofi umanitarie, distruzioni, guerre e conflitti che facevano pensare al giudizio finale e al ritorno del Figlio di Dio dal cielo. A poco valeva, quindi, impegnarsi e darsi da fare per costruire una società onesta, fraterna, basata sugli insegnamenti del Vangelo, perché a questo avrebbe pensato il Maestro, al suo ritorno. Quando poi ci si accorse che il ritorno del Figlio di Dio nella gloria non sarebbe stato una cosa immediata, e soprattutto conosciuta con anticipazione, iniziarono a farsi strada interrogativi e domande che a volte creavano sentimenti di angoscia e di preoccupazione, quasi come se ci si sentisse abbandonati da un Gesù che se ne era andato in cielo e si era scordato delle vicende della terra. Questo sentimento serpeggia in molte delle comunità a cui Paolo scrive le sue lettere; al loro interno, questo senso di scollamento e di confusione portava ad atteggiamenti ancor più rinunciatari rispetto alla costruzione di una società cristiana, anche con un senso di rabbia e di rivalsa nei confronti di un Dio che, appunto, pareva essersi scordato dell'umanità. E a volte capita pure a noi di prendercela con il cielo così come fanno i bambini cui è stata tolta una persona cara e di fronte alla quale non accettano la spiegazione della sua "salita al cielo", visto che qui sulla terra c'era ancora bisogno di lei.

Ma perché mai dobbiamo stare a guardare il cielo in attesa di una risposta? Perché mai, invece di ringraziare il Signore per quella meraviglia di cielo che ci regala in giornate come quelle recentemente trascorse, spesso rivolgiamo al cielo parole che sono tutt'altro che di lode e di ringraziamento? Perché, invece di darci da fare perché il nostro cielo sia sempre più blu, compiamo una serie di gesti e di azioni che lo deturpano e lo inquinano a volte senza alcuno scrupolo? In definitiva, perché continuiamo a rivolgerci al cielo per attenderci che da lassù qualcuno ci dica quando metterà a posto il mondo, e non ci diamo invece da fare per costruire una società che abbia lei, sempre di più, sapore di cielo? E sì che il Signore è stato chiaro sin dall'inizio, sull'atteggiamento che la Chiesa nascente (e quella di ogni tempo) avrebbe dovuto tenere al momento della sua partenza per il cielo: "Non spetta a voi conoscere tempi e momenti del potere di Dio... Restate in città, perché riceverete la forza dello Spirito Santo che vi ho promesso e sarete miei testimoni da Gerusalemme fino ai confini della terra". E subito dopo, i discepoli vengono rimproverati da due uomini in bianche vesti (gente che era quel mattino nella tomba vuota, gente che condivide con lui il cielo) che li invitano a non continuare a guardare il cielo, ma a rivolgere lo sguardo alle cose della terra, perché il Signore tornerà, un giorno, nello stesso modo in cui se n'è andato, ovvero senza troppi preamboli o preavvisi. Se una mamma avvisa i figli a che ora esce di casa e a che ora rientra dando loro dei compiti, questi se la prendono con comodo e si gestiscono in modo che tutto sia a posto per il suo rientro. Ma se la mamma rimane sul vago oppure si sa che a volte gioca d'anticipo, non si sta troppo tranquilli: si rimane in allerta e ci si dà subito da fare per non farsi trovare impreparati. Ecco perché Gesù non dice ai suoi discepoli quando se ne va, dove va, per quanto tempo starà via: perché non vuole che stiano imbambolati a guardare al cielo, prendendosela comoda o magari invocando dal cielo stesso la soluzione immediata alle loro fatiche.

Il cielo sopra le nostre teste, soprattutto quando è stellato di notte e limpido di giorno, sarà anche affascinante, ma spesso è una comoda scusa: ci mettiamo a contemplarlo misticamente, a venerarlo, a invocare da esso una risposta ai nostri interrogativi, e ci dimentichiamo che abbiamo un impegno con il Maestro, quello di essere suoi testimoni sino ai confini della terra. Senza fretta, certamente: occorre stare a Gerusalemme (ovvero fare memoria del nostro incontro con il Maestro), non farsi troppe domande sui tempi di Dio e attendere pazientemente il dono dello Spirito. Poi, però, bisogna partire, con il cielo nel cuore e lo sguardo rivolto alla terra e alla vita di ogni giorno.

Il cielo, a volte, può essere una scusa, come quando ci attendiamo che dall'alto ci diano ordini o ci dicano che cosa dobbiamo fare, senza prenderci le nostre responsabilità: la potenza dello Spirito è data a tutti, e tutti dobbiamo obbedire a questa forza che irrompe in noi. Attendere risposte dall'alto, che sia il cielo a darcele o che siano gli uomini, è fin troppo facile: e soprattutto, non è ciò che Dio vuole da noi. Per cui, rimbocchiamoci le maniche!

 

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