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TESTO Perche', Signore?... Credere nel Dio della vita

don Mario Campisi  

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (07/11/2004)

Vangelo: Lc 20,27-38 (forma breve: Lc 20,27.34-38) Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 20,27-38

In quel tempo, 27si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: 28«Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. 29C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. 32Da ultimo morì anche la donna. 33La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». 34Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Forma breve (Lc 20, 27.34-38):

In quel tempo, disse Gesù ad alcuni8 sadducèi, 27i quali dicono che non c’è risurrezione: 34«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

L'esperienza diretta e sofferta di persone care improvvisamente strappate a noi da una malattia o da una disgrazia ci costringe a confrontarci con la tremenda realtà della morte. E le grandi sciagure come le stesse guerre scatenate dalla violenza e l'innumerevole silenzioso scomparire di tanti per fame e miseria ci interrogano nel profondo della coscienza. E, quasi sempre, viene spontaneo rivolgerci a Dio e domandargli: "Signore, perché?".

La nostra angosciata domanda non rimane senza risposta, anche se il dolore può renderla in quel momento meno rasserenante e forse lontana. Tuttavia dobbiamo misurarci con la parola del Signore e far riemergere tutta la forza della nostra fede: il nostro è il Dio della vita, non dei morti. E la prova che chi vive e crede in lui non conoscerà morte eterna, sta nell'apparire, all'alba del primo giorno dopo il sabato, del Cristo vivente, risorto da morte.

A chi accanto a noi geme nella prova terribile e si tormenta nel dubbio che con la morte tutto scompaia nel nulla, non diamo vuote parole di umana consolazione: non bastano. Annunciamo invece la risurrezione di Cristo e la certezza che ogni uomo rivivrà in lui.

So che è molto difficile, specialmente nei momenti in cui la tristezza prende il cuore, confortarci con le parole del Signore: so che non è facile superare l'afflizione. Eppure dalla nostra serenità e dalla nostra fede scaturisce anche per gli altri un invito ad avere speranza. Perché, assai più di quanto crediamo, chi non ha la fede guarda a chi si dice cristiano nel momento della prova. Occorre perciò ravvivare la nostra fede nella risurrezione di Cristo.

La nostra testimonianza di credenti in Cristo dovrà rendere sempre più visibili i segni della Pasqua, vittoria della vita sulla morte. E a me pare che questa responsabilità ci inviti tutti a comprendere meglio la nostra Pasqua settimanale, celebrata "nel giorno del Signore" e ad esprimerne il mistero.

Nell'eucaristia noi "annunciamo la morte del Signore e proclamiamo la sua risurrezione, nell'attesa della sua venuta". Ma questa morte dobbiamo viverla con lui per condividere la gioia della risurrezione ed attendere che egli venga e noi possiamo apparire con lui nella gloria. Come fare?

Anzitutto possiamo cogliere in noi, senza sgomento alcuno, i segni del peccato e della sua pesante eredità: la nostra debolezza, la nostra povertà, le nostre colpe; ma anche le nostre piccole o grandi infermità, i nostri limiti, le nostre forze che vanno diminuendo, i nostri giorni che passano e non tornano: sono tutti segni rivelatori della nostra precarietà e della nostra insufficienza. Perché non offrire insieme con Cristo questa nostra condizione, questo nostro "morire ogni giorno", unendoci alla morte da lui accettata per amore? Partecipando alla comunione con il suo corpo e il suo sangue noi vivremo di lui, nutrendoci di un pane che assicura la vita per sempre.

Ed occorrerà, poi, esprimere questo mistero, della vita vera ed eterna che attendiamo, con coerenti scelte di vita. Sarà allora necessario valutare i beni della terra per quello che contano, ma non in tale misura da farci dimenticare che lo sguardo deve essere rivolto ai beni del cielo.

In tal modo daremo testimonianza di quella libertà da ogni legame che ci impedisce, pur condividendo il tempo e la storia di tutti, di orientare i nostri passi all'incontro con Colui che deve venire e ci porterà con sé nel Regno.

 

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