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TESTO Accaniti nel perdono

don Luca Garbinetto   Pia Società San Gaetano

XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (07/09/2014)

Vangelo: Mt 18,15-20 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

19In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. 20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

Il conflitto, l'errore, lo sbaglio fanno parte dell'esperienza di ogni relazione e di ogni convivenza. Ci sono individui che si accaniscono a denunciarli e a condannarli, puntando il dito senza pietà sui presunti responsabili. E ci sono, dal lato opposto, coloro che - oggi sempre più frequenti - sostengono una vaga autodeterminazione, per cui ognuno può fare della propria vita quello che vuole, a patto che il suo libero arbitrio - e quindi anche i suoi sbagli - non intralcino la loro esistenza. Questi ultimi diventano estremamente violenti quando qualcuno, imprudentemente, sfiora appena la loro rigida autonomia. I due atteggiamenti, forse, non aiutano...

Eppure non c'è verso di incontrare da nessuna parte una comunità o una famiglia, un gruppo di colleghi o di amici, in cui prima o poi non emerga la fatica della diversità. In qualsiasi angolo del mondo si decida di scappare per mettere alla prova i propri sogni di pace, si rischia la delusione. L'ideale di una condivisione senza screzi né tensioni pare riconducibile soltanto a illusorie propagande televisive o a seducenti artifici di manipolazione sociale e politica.

La cosa va presa sul serio: è una questione di verità, e quindi di vita o di morte. Chi si illude di raggiungere un giorno la perfetta - cioè asettica - relazione, priva di ogni attrito tra le persone, si condanna da solo al perfetto isolamento!

Tale realtà è così inscritta nella nostra natura umana che lì si manifesta il nostro autentico esistere come irripetibili creature predilette da Dio. È la stessa diversità, che ci caratterizza come persone singole e originali, ognuna differente dall'altra, che presuppone di doversi riconoscere, accogliere, accettare come irriducibili agli schemi e alle attese reciproche. Per il solo fatto di non essere uguali, qualche contraddizione o qualche tensione sarà inevitabile. Per questo non ha senso, anzi, è controproducente insistere su una omologazione delle esistenze a livello mondiale.

Siamo originali, siamo unici al mondo, così come siamo stati consegnati a noi stessi. E allo stesso tempo lo siamo e lo possiamo scoprire soltanto nella misura in cui ci giochiamo la vita nei rapporti così come sono, facendocene carico gli uni per gli altri.

Ecco allora il paradosso che ci propone Gesù, in quella che potremmo riconoscere come la versione pratica della regola d'oro di ogni comunità cristiana: ‘Fai agli altri quello che vuoi che gli altri facciano a te' (cfr. Mt 7,12). Gesù ci suggerisce, o meglio, ci raccomanda come necessaria la correzione fraterna.

Sembra piuttosto incoerente: si può fare la correzione a un fratello che ha sbagliato, partendo dalla considerazione che anch'io avrei piacere che lui facesse lo stesso con me? Chi, ad essere onesto e al di là di affermazioni moraliste e idealizzanti, può sostenere di provare piacere quando qualcuno gli fa un appunto o una sottolineatura su un proprio errore?

Ebbene sì: Gesù ci invita a scoprire tutta la forza e la potenza liberatrice di questa regola d'oro. ‘Vorrei che tu mi correggessi' - ‘mi corrigerete', disse simpaticamente papa Giovanni Paolo II dal balcone della Basilica di San Pietro - non perché mi fa provare piacere, ma perché ho capito che soltanto nel tuo coraggio di affacciarti alla mia povertà si apre il cammino di una relazione autentica.

Nel comandamento di Gesù di farsi carico dello sbaglio del fratello, di portare il peso del suo peccato, non c'è un accanimento di giudizio. Al contrario, c'è l'insistenza della pratica del perdono, che però parte dalla consapevolezza che il peccato esiste. Ed esiste prima e soprattutto il mio. Il peccato è l'espressione estrema, dolorosa, lacerante, sfigurante della mia fragilità. ‘Vorrei, caro fratello, che tu non scappassi di fronte alla mia fragilità, che non ti spaventassi al punto da lasciarmi solo, deluso e stremato dalle mie cadute'. Solo chi vive con questa invocazione cosciente nel cuore è disposto a porsi accanto all'altro con l'atteggiamento della misericordia e della giustizia che Gesù pratica e insegna.

A partire dalla consapevolezza della propria debolezza, del proprio peccato perdonato dall'accanimento al perdono di Dio, il fratello che ama veramente si avvicina a colui che ‘commette una colpa' per condividere la stessa esperienza di riconciliazione profonda. Lo invita a non avere paura della propria miseria, e lo invita a porsi faccia a faccia con la corrente di perdono che la può riempire. Questa corrente, però, non è un passaggio indolore e anestetizzante, che fa finta di non vedere il dramma dell'uomo incallito nella propria autoreferenzialità. Anzi: si tratta di una scossa che brucia, di una scarica di vita che ha il potere di scardinare le resistenze dell'orgoglio e dell'autocommiserazione. Ma c'è bisogno di lasciarsi coinvolgere in questa cura radicale.

La comunità vera si fonda in questa capacità di farsi carico l'uno dell'altro e di lasciarsi portare sulle spalle reciprocamente. A volte è più faticoso farsi aiutare che aiutare. Ma è anche doveroso non passare oltre l'errore che sta frantumando l'esistenza del fratello. Probabilmente, il peccato più grave che si vive nelle relazioni umane, sia negli ambiti sociali che in quelli religiosi, è il peccato di omissione. Che è anche un peccato di incoscienza: non ci si rende conto di come la colpa possa distruggere interiormente - oltre che esteriormente - una persona.

Il peccato di omissione praticato sistematicamente nelle comunità cristiane è la radice remota - o non tanto remota - dell'indifferenza con cui si osservano i drammi dell'umanità ferita. Interi popoli perseguitati e oppressi, tragedie umanitarie di dimensioni planetarie, ideologie camuffate di pratiche religiose traboccano ogni giorno in fiumi di sangue. Ma la nostra preghiera, la nostra invocazione di figli spesso trascura e dimentica tanto dolore.

Riuniti, due o tre, nel nome del Padre, rischiamo di ‘passare oltre' (cfr. Lc 10,29-37): perché il grido degli innocenti sofferenti ci obbliga - più che a qualche lacrima spesa di fronte a una schermata digitale - ad alzare lo sguardo verso chi ci sta accanto per coglierne le derive e le lacerazioni, assumendone le conseguenze insieme per un cambiamento che sia reale e non illusorio. Enorme responsabilità!

Ma d'altro canto, una comunità umana sarà immagine della Trinità divina soltanto nella misura in cui genererà legami che sciolgono i nodi delle paure e della solitudine, spesso matrici di tante sciocchezze che si combinano.

 

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