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TESTO Commento su Es 33,18-34,10; 1Cor 3,5-11; Lc 6,20-31

don Raffaello Ciccone  

VI domenica dopo Pentecoste (Anno A) (20/07/2014)

Vangelo: Es 33,18–34,10|1Cor 3,5-11|Lc 6,20-31 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 6,20-31

20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:

«Beati voi, poveri,

perché vostro è il regno di Dio.

21Beati voi, che ora avete fame,

perché sarete saziati.

Beati voi, che ora piangete,

perché riderete.

22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.

24Ma guai a voi, ricchi,

perché avete già ricevuto la vostra consolazione.

25Guai a voi, che ora siete sazi,

perché avrete fame.

Guai a voi, che ora ridete,

perché sarete nel dolore e piangerete.

26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.

27Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, 28benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male.

29A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. 30Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.

31E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.

Esodo. 33, 18 - 34, 10
Quando Mosè sale sul Sinai, per ricevere la legge e sancire l'Alleanza, c'è piena sintonia con la volontà del Signore e grande attesa. I comandamenti erano già stati proclamati (Es 20) e Mosè, per popolo, sul monte, è rimasto un tempo enorme (40 giorni e 40 notti nella turbolenza sulla cima del Sinai e nella tempesta). Il popolo però, vedendo che Mosè tarda a scendere dal monte, prima si preoccupa, poi si spaventa e quindi teme di essere abbandonato. Così fa ressa intorno ad Aronne e gli dice: «Fa per noi un Dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell'uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto»" (Es32,1). Ci vuole un idolo, qualcosa di concreto su cui appoggiare il proprio cammino. La parola di Dio e i fatti di liberazione non sono più sufficienti. Avviene la tragedia della ribellione. Quando Mosè torna, sente l'angoscia del tradimento contro Dio e contro la propria fedeltà, insieme con il rischio del totale ripudio del popolo da parte di Dio. Mosè è rimasto fedele e lotta contro gli idolatri. Ma poi non sa il suo futuro. Il cuore di Mosè è in tumulto, convinto del rifiuto di Dio e della lacerazione di un'alleanza prefigurata. E' convinto di doversi preparare ad un destino di abbandono e di morte nel deserto. Ma il Signore lo chiama una seconda volta sul Sinai (Es. 34,4-10). Mosè, rincuorato, torna fedele mediatore, ponendosi, lui fedele, dalla parte del popolo che vuole salvare ad ogni costo. Anche il Signore vuole salvarlo perché è misericordioso. Ma il Signore ha bisogno proprio di un mediatore misericordioso.
Dio vuole rifare una copia della prima legge che è andata distrutta nella disperazione di un tempo senza futuro. E se le prime tavole sono state opera di Dio, scritte da Dio e donate (32,16), anche qui Dio non recede e accetta di scrivere, ancora una seconda volta, la legge. La legge infatti ha una sua santità e un suo altissimo valore. Non può che uscire dalle mani e dal progetto di Dio che ci conosce e sa qual è il nostro bene. Ma questa volta le nuove tavole di pietra debbono essere preparate da Mosè stesso: la legge nasce e si propone in collaborazione.
Il Signore mantiene la misericordia con fedeltà e amore; e questa è la sorpresa per tutti, ma soprattutto per Mosè, che sta imparando a conoscere Dio. E infatti Dio gli si ferma accanto, nascosto e palese ("scese nella nube" v.5) e si proclama per ciò che Mosè deve capire sulla identità di Dio stesso. Dio si svela e dice veramente chi è: "misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà". E Mosè allora osa chiedere di vedere il volto di Dio, sperando di poter conoscere meglio il Signore. Ma il Signore lo dissuade. E' vero che dal volto di una persona puoi intuire qualche cosa di ciò che ciascuno è, ma la vera rivelazione è, prima di tutto, la Parola che Dio dice su di sé. Ma il Signore lascia anche la possibilità di un'altra rivelazione: è guardare la storia, ciò Dio che ha lasciato dietro di sé, alle spalle: «Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (33,23).
Così Mosè, che teme di restare solo e angosciato in questa scelta di solidarietà, scopre che è possibile riprendere una speranza grande e un progetto interrotto. E' salva la fede in una misericordia infinita per cui prevale il perdono anche se continua, nella giustizia, la punizione. Ma il favore e il perdono stanno come 1000 a 4.
Mosè accoglie e "si curva in fretta fino a terra" (v.8) e riprende la sua preghiera di intercessione. Chiede che "il Signore cammini in mezzo a noi, che perdoni la nostra colpa e ci faccia sua eredità ". Come e molto più di Mosè, che fino in fondo si sente mediatore, e fa le scelte preziose di solidarietà con il popolo, Gesù è l'unico ed eterno mediatore ed ha scelto noi, suo popolo, perché continuiamo la nostra preghiera di intercessione. Come cristiani l'ascolto delle tante notizie che ci vengono date nasce dal diritto di informazione dalla radio e dalla TV. Ma poi che cosa ne facciamo di questo diritto? E' Per scandalizzarci, per abbandonare la speranza? Non è un dono per la nostra intercessione presso il Signore, notizie belle o cattive che siano?
1 Corinzi. 3, 5-11
Paolo deve affrontare i problemi di una comunità. Essa, come tutte, tende a fratturarsi in gruppi di appartenenza o simpatia. Si giocano all'interno gusti, interessi, normali simpatie o antipatie, e quindi confronti, valutazioni, partigianerie e disprezzo conseguente.
La Comunità di Corinto è vivace e carica di tensioni. Paolo la conosce bene e, quando scrive, lontano da questa comunità, si preoccupa di riprendere la storia della loro maturazione che ha vissuto insieme. Il capitolo precedente di questa lettera si è soffermato sulla sapienza. La sapienza deve applicarsi al lavoro di ogni giorno, e deve farlo fruttificare. Il campo di operosità, aperto a tutti, è costituito dall'agricoltura e dall'edilizia. In questi due orizzonti Paolo ricostruisce esempi di ruoli e di responsabilità.
Quello di cui bisogna preoccuparsi è cogliere i frutti che saranno un dono per tutti e costruire la casa che diventa il luogo della intimità in cui il Signore è presente". Coloro che aiutano a maturare, ad operare, a scegliere, coloro che sono identificati come capi e di cui ci si fida, sono "servitori" che hanno aiutato a venire alla fede. "Il progetto in loro e in voi è altro. "Siamo collaboratori di Dio e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio" (3,8). Il Signore fa crescere, utilizzando ovviamente il lavoro di chi pianta e di chi irriga. Ma, nel campo, determinante è Dio che fa crescere ciò che è stato seminato, e non gli annunciatori o i catechisti (Paolo, Apollo, Cefa).
Se c'è divisione, la comunità non porta crescita anche se si sviluppano opere e si lavora a gloria di Dio. E' il problema di ogni comunità cristiana che istintivamente si spezzetta in diversi gruppi, chiusi e spesso in competizione. Tutto questo è un grave danno per la Chiesa poiché il campo diventa sterile e si appannano lo splendore di Gesù e il suo valore. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).Perciò una Comunità cristiana ha il compito delicatissimo di sentirsi in comunione, superare gli antagonismi, sapersi accettare con amore. Quando ci si preoccupa di alcune forme di aggregazioni pericolose, bisogna saper analizzare. La gente si sente coinvolta, capita e quindi accolta. Gesù lo sapeva e ci ha suggerito il vero stile di testimonianza. Paolo ricorda che chi fa crescere è Dio e chi fa da fondamento alla Chiesa è Cristo.

Luca. 6, 20-31
Luca deve aver avuto tra mano una tradizione diversa da quella di Matteo, in questo testo, poiché ambedue scrivono le "Beatitudini", ma con alcune sottolineature diverse. Il richiamo di Luca è il "discorso della. pianura" in parallelo al "discorso della montagna" di Matteo (cc 5-7). Se la collocazione ha, certo, un significato, ma probabilmente molto marginale, tutti e due dicono prospettive e proposte fatte solo ai discepoli, e non alle folle. Di fatto tutto questo, allora come oggi, non può essere capito se non si ha come garanzia Gesù, il rivelatore del pensiero di Dio, e non si crede in Lui. Nel mondo, tuttavia, la sua rivelazione non è stata offerta come pensierini dei baci Perugina, ma come criteri di vita e scelte credenti. Da qui nasce la testimonianza e lo stupore di valori nuovi, depositati nella memoria di noi, suo popolo. La parola "beati" è anche un complimento che Gesù fa ad alcuni: "Mi congratulo con te, sono felice per te, sono sorpreso della tua scelta". I rabbini usano proporre valori positivi con: "Beati" e usano dissuadere da azioni malvagie con "Maledetto" o "Guai a". In questo caso anche Gesù usa spesso questi richiami "Beati i servi che attendono il padrone " (Lc 12,37), "Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno" (Gv 20,29); "beato chi non si scandalizza di me " (Mt11,6) ecc.
Matteo ne riporta otto, (Mt5) mentre Luca ne riporta quattro, facendole seguire da quattro maledizioni antitetiche. Il discorso è rivolto direttamente agli uditori, nella seconda persona plurale: "Beati voi", "guai a voi...". Il linguaggio di Luca è immediato ed efficace. mentre Matteo, rivolgendosi in terza persona, dà al testo un sapore più astratto (salvo l'ultima delle 8 beatitudini): "Beati i poveri, beati quelli che piangono, ecc", e aggiunge qualche parola, dando al testo un significato più spirituale: "Beati i poveri in spirito, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia...". Così Matteo, inserendo le beatitudini in una catechesi ecclesiale, ha prospettive morali-esistenziali. Luca, invece, non vuole tanto svelare precetti nuovi, ma proclamare un bene, un nuovo modo di essere, la novità assoluta che piace a Dio e che per noi è inedita.
"Beati voi poveri e guai a voi ricchi". Sono parole che, oggi, suonano come una bestemmia ed una pazzia. Eppure, finalmente, Papa Francesco sta parlando di una Chiesa povera senza timori e lo fa con insistenza. E tuttavia va ancora scoperto il vero significato poiché è complesso, difficile da capire. Certamente non sono i soldi il vertice della vita. Certamente va sperimentato e compreso nella nostra storia il significato dell'essere poveri, delle scelte umili, di un cammino libero per tutti, rendendoci conto che il problema, per ogni persona adulta e per ogni dignità, è il lavoro e quindi una giusta retribuzione, e non i soldi.
Segue una seconda parte, qui parzialmente prospettata (6,27-35), che esemplifica il significato delle beatitudini. Il linguaggio, però, non è astratto né poetico, né esaltante poiché incide sulla carne di ciascuno e rimette in discussione tutto ciò che uno ha. Ci troviamo faccia a faccia con il nostro male. Il mio nemico, il mio persecutore, il mio calunniatore, in una parola, me li trovo davanti come potenziali omicidi. Eppure debbo fondamentalmente lavorare con la mia coscienza, con i miei sentimenti, con le mie paure e le mie diffidenze. Gesù ci dice: "Amate i vostri nemici" e quella parola "amate" è una parola che Pietro capì benissimo ma non ebbe il coraggio di ripetere. La parola "amare", nel testo greco significa "amore di comunione che ha il Signore con il suo popolo" ("agapao", da cui la parola italiana "agap": "mangiare in amicizia e condivisione"). Infatti, quando Gesù chiede a Pietro: "Mi ami tu?", usa lo stesso verbo greco, ma Pietro gli risponde: "Si, ti voglio bene". Non osa poiché ha alle spalle i suoi tre rinnegamenti nella notte del processo di Gesù (Gv 21,15-17). E questo è il "paradosso dell'amare i nemici". E Gesù l'ha fatto sulla croce perdonando.
Il rapporto amico-nemico viene sviluppato in uno stile di novità in quattro punti: "Amare i nemici, fare del bene a chi vi odia, benedite chi vi maledice e pregate per chi vi maltratta".
Altri quattro richiami sulla vita quotidiana fanno riferimento "alla violenza, alla pretesa degli altri nella loro ingordigia (chiedere il mantello e chiedere danaro), alla gratuità (non richiedere)". Questo testo conclude in quella che viene chiamata "la regola d'oro". «Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro». E questo è emozionante. Quanto meno uno se lo aspetti, ci sentiamo chiamati a verificare i nostri sentimenti, a prenderli sul serio e, addirittura, a prenderli a misura dei nostri comportamenti rispetto alla misericordia e alla pienezza di Dio. "Come volete...anche voi". La regola d'oro si trova, spesso, in altre religioni, riletta, per lo più nei termini del "non fare: "Non fare agli altri quello che non vuoi che gli altri facciano a te".
Siamo, nell'ultima cena, nella confidenza di Gesù e nella piena rivelazione e, per i cristiani la regola d'oro procede per parametri ancora più profondi: "Vi do un comandamento nuovo: e vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi così amatevi anche voi gli uni gli altri. Per questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,33- 34). Le Beatitudini, qualunque cosa si creda, segnano un orientamento per la vita e un orizzonte su cui misurarsi per costruire un mondo di novità e di speranza.

 

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