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TESTO Commento su Matteo 11,25-30

fr. Massimo Rossi  

XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (06/07/2014)

Vangelo: Mt 11,25-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo Gesù disse: 25«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.

28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Domenica scorsa ci siamo concentrati sulla domanda che Gesù rivolge direttamente agli apostoli: "E voi, chi dite che io sia?". Oggi l'identità del Signore si arricchisce di nuove indiscrezioni: Gesù è mite e umile di cuore. Mitezza ed umiltà sono caratteri fondamentali della persona del Figlio di Dio: tuttavia sarebbe erroneo e anche un po' ingenuo pensare che per essere dei buoni cristiani bastasse avere un temperamento mite e un atteggiamento umile... Per fortuna - o nostro malgrado - il mondo è pieno di uomini e donne miti e umili di cuore, che tuttavia non credono in Cristo; un nome per tutti, il Mahatma Gandhi.

Insieme con la mitezza e l'umiltà, è necessario accogliere il giogo del Signore. La mitezza e l'umiltà sono appunto necessarie per affrontare il buon combattimento della fede (come lo definisce san Paolo). È il fine che dà valore agli atteggiamenti, i quali - mitezza e umiltà - potrebbero essere un modo elegante per chiamare il disimpegno e la viltà. Al contrario, per essere autenticamente cristiani ci vuole coraggio e fortezza! A loro volta, se non vengono accordati a mitezza e umiltà, il coraggio degenera in temerarietà, e la fortezza può facilmente assumere i tratti dell'arroganza e della prepotenza. Ancora una volta bisogna riconoscere che l'insigne frate domenicano s. Tommaso D'Aquino aveva ragione a dichiarare che le virtù o si possiedono tutte, o non se ne possiede nessuna!

La citazione dei carri da guerra di Efraim allude verosimilmente alla guerra Siro Efraemita, citata nel secondo libro dei Re (cap.16) e in una profezia di Isaia (cap.7), quest'ultima a noi particolarmente cara perché contiene l'annuncio che il Messia sarebbe nato da una vergine. In supersintesi, il conflitto si svolse tra il 734 e il 732 a.C.: il nome con il quale la guerra sarebbe stata per sempre ricordata indica la Siria e il regno di Efraim-Israele che si coalizzarono contro l'Assiria. L'alleanza antiassira era sostenuta dall'Egitto, il quale mirava alla conquista della Palestina, allora in mano agli Assiri. Il re di Giuda rifiutò di entrare nella coalizione e cercò aiuto presso il sovrano assiro, il quale sbaragliò la coalizione e ridusse la Palestina a una sua provincia. Notizie sulla guerra Siro Efraemita si trovano in documenti extrabiblici, come le tavole di Numrud.

Conoscendo questo tragico capitolo della storia di Israele, capiamo forse meglio il senso della prima lettura, tratta dal libro di Zaccaria, il quale scrive negli anni del conflitto: la profezia messianica è l'annuncio che non solo quella guerra finirà, ma che tutte le guerre finiranno! Finalmente Israele vivrà libero e in pace; il re-Messia sarà portato in trionfo ed entrerà vittorioso in Gerusalemme, cavalcando un puledro figlio di asina, che poi altro non è che la leggendaria cavalcatura di Davide. Evidente l'allusione all'ingresso trionfale di Gesù nella città santa alla vigilia della sua passione.

Perdonate la digressione storica; era necessaria per sottolineare il principio fondamentale che guerra e fede non possono stare insieme: la prima smentisce la seconda; la guerra in nome di Dio è una strumentalizzazione della fede e non è un principio cristiano. Anche se la Chiesa dei secoli passati ha promosso, o appoggiato guerre sante, la Chiesa di oggi condanna l'uso delle armi come soluzione dei conflitti politici e religiosi. Il discorso della montagna, o delle Beatitudini, che trovate nel cap.5 del Vangelo di Matteo, è la celebrazione di Gesù nonviolento e dei cristiani che seguono il suo esempio, non si ribellano ai soprusi, non reagiscono alle offese, non fanno valere i torti subiti...in una parola, perdonano.

Prima che un aspetto della relazione, l'istinto del conflitto è una dinamica interna alla persona; e su questa dinamica si concentra san Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma: l'apostolo dei Gentili presenta il ruolo della carne nella nostra esistenza come dominio (della carne) sul corpo: l'espressione richiama appunto la dinamica del conflitto, del duello tra la carne e lo spirito, ove la prima affronta e soverchia il secondo. Francamente non liquiderei la definizione come un semplice modo di dire. Il concetto di dominio non si accorda con il valore supremo della comunione. L'unico Signore e padrone è il Cristo, il quale muore per coloro che gli sono stati sottomessi. Si sottomette addirittura a coloro che il Padre gli ha sottomesso!
Questo è il nostro Signore! questo è il nostro Re!

Tornando un'ultima volta sul giogo di Cristo, verrebbe da pensare alla croce, ma la croce non sembra per nulla un giogo dolce e leggero: non lo fu per Gesù, non lo è neanche per noi.

Il Signore definisce il suo giogo dolce e leggero, in contrapposizione al giogo che i farisei avevano posto sulle spalle dei poveri, fatto di centinaia e centinaia di prescrizioni, la cui osservanza integrale era praticamente impossibile. Al capitolo 23, il primo evangelista riporta una pesante invettiva di Gesù contro i cosiddetti maestri della Legge: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito" (vv.2-4).

Ripeto e concludo: il giogo di Cristo consiste nell'imitarlo sulla strada dell'amore misericordioso e compassionevole verso il prossimo.

Questo giogo non si impone con la violenza. Non si può costringere nessuno ad amare come ha amato il Figlio di Dio; si può solo scegliere per sé. Anche in questo, il Cristo prende le distanze dagli altri maestri, i quali - lo avete appena sentito - insegnano, ma non mettono in pratica quello che insegnano. Per lo stesso motivo, durante l'ultima cena, il Signore sentì il bisogno di lavare i piedi ai Dodici: viene il momento in cui le parole non sono più sufficienti; è necessario passare ai fatti. In una civiltà come la nostra, dove anche la parola è inflazionata, mancano i fatti, mancano i testimoni, che parlano meno, ma si rimboccano le maniche...

Ci venga in soccorso la memoria del beato Giuseppe Girotti, un domenicano, predicatore per vocazione, il quale preferì abbandonare la cattedra di Sacra Scrittura, per dedicarsi e tempo pieno al servizio dei poveri più poveri di Torino, quelli che non avevano neanche i soldi per pagarsi un posto letto all'ospizio... "Tutto ciò che ho fatto, l'ho fatto solo per la carità", confessò candidamente un giorno, fr. Giuseppe a chi gli chiedeva ragione della speranza che era in lui. Ora la Chiesa lo addita come esempio di eroismo della fede. Vedete, non è necessario essere dei superuomini, per camminare dietro al Signore...

"L'amore si nutre di una sorta di pudore metafisico,

s'incarna nel vivere stesso che, via via, perde sempre qualcosa di sé..."
Ibn Hamdis

 

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