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TESTO Commento su At 6, 1-7; Rm 10, 11-15; Gv 10,11-18

don Raffaello Ciccone  

IV domenica T. Pasqua (Anno A) (11/05/2014)

Vangelo: At 6, 1-7|Rm 10, 11-15|Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 10,11-18

11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

At 6,1-7
Nei primi cinque capitoli degli Atti degli Apostoli, l'evangelista Luca sviluppa in modo intelligente e coerente il cammino di questa nuova comunità cristiana alla luce di Gesù risorto e, ricca dello Spirito del Signore, vuole vivere a Gerusalemme le scelte di Gesù, sperimentando e mettendo n pratica proposte e valori che i primi discepoli raccontano e testimoniano, parlando di Gesù.
Con il cap. 6 si segnala l'inizio della rapida espansione del Vangelo in Israele fino ad Antiochia e, insieme, il racconto dei fatti quotidiani della Comunità di Gerusalemme che rivelano le iniziali difficoltà interne che mettono in crisi la fiducia reciproca e la comunione. A Gerusalemme la comunità ebraica è costituta da ebrei e da ellenisti. Gli ebrei erano nati e cresciuti in Palestina, parlano in aramaico e, nelle sinagoghe, leggono la Bibbia in ebraico, sono molto attaccati alle tradizioni dei padri ed alla legge di Mosè, considerano indiscutibili le interpretazioni dei rabbini. Gli ellenisti sono nati e cresciuti all'estero.
Vivono una cultura molto più aperta per la conoscenza e la convivenza con altri popoli. Ora, a Gerusalemme, hanno sinagoghe proprie (pare che a Gerusalemme si possono contare sul palmo di una mano) mentre le sinagoghe degli ebrei sono alcune centinaia.
La Comunità cristiana è costituita, in maggioranza, da ebrei nati in Israele ma anche da ellenisti.
Nell'assistenza quotidiana sorge una lamentela della minoranza, costituita da ellenisti, poiché rimproverano una certa trascuratezza nel confronto delle vedove di questo gruppo. E' interessante verificare allora il metodo seguito per risolvere la tensione.
Gli Apostoli riconoscono la situazione di difficoltà e decidono di sviluppare, diversificando, ruoli e compiti. Non accusano, non rivendicano un loro potere insindacabile, ma si preoccupano della elezione dei "sette", tutti di origine greca (lo si vede dal nome), che si occupino dell'assistenza quotidiana e, in particolare, delle mense. Ai poveri non si danno soldi, che, in questo mondo contadino, sono molto rari, ma ci si preoccupa di interventi per esigenze quotidiane. E' sempre molto interessante scoprire la scelta coraggiosa di riconoscere alla minoranza dei cristiani ellenisti la responsabilizzare della gestione delle mense, oltre al lavoro pastorale nella comunità degli ellenisti stessi. In altri termini chi si lamenta diventa il responsabile nuovo della gestione. Da notare che la gestione prevede anche un certo significativo potere economico: raccolta di fondi, gestione delle risorse, commercio per far funzionare ogni giorno le mense. In pratica tutti i problemi economici passano ai laici di minoranza.
Tra i "sette" almeno due, Stefano e Filippo, svolgono anche un prezioso lavoro di predicazione, aperto ai pagani e una riflessione biblica nuova: interpretare il Vecchio Testamento alla luce dei fatti e delle parole di Gesù.
Il numero 7 può derivare dal poter dedicare un giorno la settimana per un volontariato che non può eliminare il proprio lavoro nel resto della settimana.
Nel brano sorgono anche le linee fondamentali di questa piccola comunità in crescita e si profilano le scelte essenziali (o ministeri) della Chiesa: il servizio della Parola, il servizio liturgico della preghiera e il servizio dell'assistenza ai poveri. Viene usata la parola "diaconia"(servizio) e si parla della "imposizione delle mani". Da questa parola verrà più tardi la parola "diacono" che identificherà questo compito di servizio nella Comunità cristiana. Il Concilio Vaticano II ha lungamente discusso la riproposta del "diaconato permanente", scelto nel popolo di Dio. Da secoli il diaconato è rimasto ormai solo come un momento di passaggio al sacerdozio. Ora, il "diacono permanente" fa parte del clero, non è un anticipo del sacerdozio. Dopo molte discussioni, è stato accettato che fosse sposato. La prospettiva del diaconato permanente è possibile, però, solo se la moglie accetta per il marito questa responsabilità e servizio. E i compiti sono legati ai tre funzioni della Chiesa a cui il diacono partecipa: il servizio della Parola, il servizio liturgico della preghiera e il servizio dell'assistenza ai poveri.
Ma l'ufficio corrispondente al diaconato si definirà più tardi. E' interessante notare che la Chiesa articola le sue funzioni, non solo ancorandosi al suo inizio ma anche cercando di dare risposte varie a secondo dei problemi che man mano si affacciano nel proprio cammino storico. Essa si struttura, infatti, anche per le necessità concrete che emergono, al fine di vivere in comunione. E' anche una comunità senza pregiudizi, coraggiosa e fiduciosa, che affronta i disagi, rileggendoli in positivo come richiamo ad una responsabilità comune e ad una efficiente collaborazione.
Rom10,11-15
Paolo si preoccupa di aiutare a scoprire che il centro della fede: è Gesù. Tale centralità deve essere nel cuore e sulla labbra di ciascuno: "Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza". Accogliere Gesù richiede un profondo e coraggioso atto di fede per cui con la bocca e con il cuore crediamo e accettiamo che Gesù è il Signore, vissuto tra noi, crocifisso e risorto. La bocca e il cuore sono due vie importanti per esprimere la fede (10,8).
Il cuore è il luogo delle scelte, delle decisioni, delle appartenenze. Nel cuore matura e si sviluppa la fede nel Signore Gesù morto e risorto e quindi una coerente coscienza morale. In questo caso il cuore proclama la signoria di Gesù sulla nostra vita e quindi la sua unicità e il suo valore per poterci unire in pienezza. La bocca proclama ed offre la novità gioiosa che il Signore ci ha offerto gratuitamente e per questo ci elegge messaggeri per tutto il mondo. Attraverso noi, che crediamo, scopriamo le scelte di Gesù che sono scelte per tutti gli uomini, senza distinzione. "Poiché non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano" (v 12). Paolo ci ricorda allora la fondamentale parità di dignità agli occhi di Dio per ogni uomo e donna e, insieme, ci ricorda quel desiderio che il Signore ha di aiutare e salvare ogni persona. Così ci ha "inviati". Come battezzati stiamo scoprendo la vocazione di essere fondamentalmente missionari, vivendo in noi l'urgenza ed esprimendo attorno a noi questa notizia portentosa della scelta che Dio fa di ciascuno. E' una scelta di dignità e di valore, scelta di accoglienza e privilegiata, scelta che si sviluppa ogni giorno nella concretezza di quotidiana operosità, nel lavoro e nelle amicizie, nella politica e negli affetti familiari. Nulla è escluso dalla testimonianza che non suppone cose eccezionali, ma responsabilità, attenzione, competenza, accoglienza. In tal modo si manifesta che Gesù è risorto per tutti.
Gv 10,11-18
Ci si è mai domandati come mai nella liturgia delle domeniche pasquali, i passi del vangelo presentati si preoccupino di mettere in evidenza la sollecitudine di Gesù a rendersi presente e Vivo, nelle consuetudini abituali dei discepoli?
Giovanni scrive per la sua comunità di Efeso, che evidentemente si sente minacciata: siamo alla fine del I secolo, in una grande città cosmopolita dell'Asia Minore, dove i discepoli per lo più sono ormai di origine ellenica. E Giovanni utilizza un'immagine del mondo semitico, quella del pastore.
Un'immagine ambigua, perché, se da una parte richiama la figura biblica di Dio come pastore del suo popolo che guida in mezzo alle difficoltà e ai travagli del deserto, dall'altra sa che i ‘ pastori' nell'immaginario cittadino non godono di buona fama, ma sono considerate figure un po' losche.
Gesù afferma di essere il"pastore" vero (questo è il più esatto significato della parola greca kalòs), colui che non abbandona mai le pecore che gli sono affidate, che le conosce ad una ad una, anzi è pronto a dare la vita per esse.
E' una persona vera, del popolo, che vuole dimostrare di esserci (la Pasqua è un non venir meno della presenza del Dio Vivo). Anzi di continuare a stabilire e a mantenere un rapporto: pastore e pecore si riconoscono alla voce, in modo così profondo e vero dall'essere paragonati al "come" del Padre e del Figlio.
Ecco: vivere la Pasqua, credere nel Vivente qui ed ora, richiede di riconoscere la voce del pastore e di tutte le pecore, perché ci possa essere un ovile simile all'Eden, dove appunto tutti si conoscono, si comprendono e si amano.
Ma per noi che cosa vuol dire riconoscere la voce del pastore, in mezzo ai rumori dilatati delle piazze e delle chiese?
Credo che si debba ripartire dalla Galilea degli alfabeti, là dove si cominciano a recuperare i suoni fondanti le parole, l'uso sapiente di esse, il valore che esse assumono nello spessore del silenzio, il senso che porta a conoscere e riconoscere.
Davvero crediamo di riconoscere la voce di Gesù e di sapere che tipo di rapporto vuole stabilire con ciascuno di noi?
Don Raffaello Ciccone e di Teresa Ciccolini

 

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