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TESTO Amate i vostri nemici

dom Luigi Gioia  

VII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (23/02/2014)

Vangelo: Mt 5,38-48 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.

43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Non vi è ambito nel quale sperimentiamo più crudelmente la nostra impotenza di quello del perdono. E' impossibile ascoltare il vangelo di oggi senza essere sommersi dallo scoraggiamento. Quante volte abbiamo provato a perdonare, a non reagire al male ricevuto, a non cedere al risentimento e abbiamo dovuto constatare che non ci siamo riusciti o che ci siamo riusciti per un periodo, ma che poi il cuore si è di nuovo indurito e l'amarezza ha di nuovo preso il sopravvento. Oppure ci siamo riusciti esteriormente, ma nel nostro cuore abbiamo continuato a provare per la persona che ci ha fatto del male ribrezzo, repulsione. Abbiamo continuato ad essere freddi, distanti, indifferenti o peggio, abbiamo scoperto di provare gioia quando chi ci ha fatto del male ha sofferto, quando gli è successo qualcosa di brutto. Vi abbiamo letto una giusta punizione. Forse non lo abbiamo detto apertamente, ma ce lo siamo detti nel cuore. Occorre prendere atto di questa difficoltà, anzi di questa impossibilità. Occorre riconoscere onestamente che perdonare, perdonare davvero, è impossibile.

Di fronte alla pagina del vangelo di oggi, di fronte all'enormità delle richieste di Gesù, ci sono dunque due reazioni possibili. La prima consiste nel considerarla come una iperbole, una esagerazione retorica. Gesù non chiede veramente di porgere l'altra guancia, non chiede di lasciare il mantello. Queste sono forzature tipiche del linguaggio semitico, come quando Gesù dice: Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te.

La seconda reazione possibile è quella di prendere questa pagina del vangelo come un'ingiunzione morale pura e semplice: Gesù dice che devo perdonare e amare i nemici e che non mi devo opporre al malvagio, allora prendo la risoluzione di farlo davvero da oggi in poi. Se finora non ci sono riuscito, se non sono riuscito a perdonare davvero, è perché non me lo sono imposto con una determinazione sufficiente.

Naturalmente entrambe queste reazioni, entrambe queste maniere di capire il vangelo di oggi sono sbagliate e lo tradiscono.

Nel primo caso, sappiamo che queste parole del Vangelo non sono un'esagerazione retorica per una ragione molto semplice: l'esempio di Gesù. Gesù non si è cavato l'occhio, né ha mai chiesto a nessuno di farlo: questa è davvero un'esagerazione retorica. Per il perdono invece, effettivamente Gesù non si è opposto a coloro che lo hanno arrestato, torturato e assassinato. Ha continuato ad amare Giuda e gli ha lavato i piedi all'ultima cena, cioè ha dato la sua vita per lui, ha accettato il suo bacio al momento del tradimento, non ha reagito, ha offerto la guancia a lui e poi ha continuato ad offrire la guancia a coloro che lo hanno schiaffeggiato. A coloro che lo hanno trascinato in tribunale non ha dato risposta. Non si è difeso, sapendo che non cercavano la verità e che era inutile parlare. E sulla croce ha pregato per tutti coloro che lo stavano assassinando e ha ottenuto per loro il perdono del Padre: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno. Quindi la pagina del vangelo di oggi non contiene nessuna esagerazione retorica. L'esempio di Gesù ci mostra che deve essere presa assolutamente alla lettera.

Sarebbe però egualmente sbagliata una lettura puramente moralistica di questo passaggio che facesse del perdono unicamente una questione di volontà. Questa interpretazione è sbagliata perché perdonare è impossibile all'uomo. Ciò di cui saremmo forse capaci sarebbe di "metterci una pietra sopra", ma questo non è perdonare, perché sotto la pietra la cosa resta e al momento giusto toglieremo la pietra e ripescheremo i vecchi rancori, i vecchi risentimenti, forse anche amplificati.

Questa pagina del vangelo contiene molto più di una semplice ingiunzione morale. In realtà essa ci rivela che il perdono è possibile solo in un contesto che dobbiamo edificare lentamente, pazientemente, assiduamente e che ha due caratteristiche principali. Prima di tutto il perdono si schiude nel nostro cuore solo quando invece di restare ripiegati su noi stessi, alziamo gli occhi e incrociamo lo sguardo del Padre nostro che è nei cieli. E poi, seconda caratteristica, il perdono richiede un contesto comunitario solidale e corresponsabile.
Cerchiamo di approfondire questi due aspetti.

Prima di tutto il rifiuto del perdono è l'espressione di un isolamento, di un ripiego fatale su noi stessi. Questo appare in modo particolarmente suggestivo nella storia del primo assassinio perpetrato dall'uomo, quello di Caino nei confronti di Abele. Leggiamo nel libro della Genesi che il Signore disse a Caino: Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto e tu dominalo. L'odio, il rancore, il desiderio di vendetta si manifestano prima di tutto attraverso un volto che si oscura e che si abbassa, espressione fisica di questo ripiego su di sé.

Se analizziamo per un momento il monologo del risentimento, del rancore e a volte dell'odio, del desiderio di vendetta che si impadroniscono di noi, troveremo sempre frasi di questo tipo: "A me questo non si fa", "Non posso permettere che mi si tratti in questo modo", "Ne va del mio onore", e via dicendo. L'odio, il rancore, il desiderio di vendetta non sono sentimenti naturali nell'uomo. Perché possano crescere ed indurci ad agire dobbiamo covarli, serbarli nel cuore. La prima lettura utilizza proprio questa espressione: Non coverai odio contro il tuo fratello. Non serberai rancore. La dinamica della vendetta obbedisce ad una deliberazione fredda e cieca, richiede una perseveranza nel male: mi ripiego su me stesso; continuo a ripetermi che non posso permettermi di essere umiliato in questo modo dall'altro; coltivo, nutro questo risentimento e questo rancore e li lascio fatalmente evolversi in odio, fino a che non si presenta l'occasione di sfogarmi, di soddisfare l'astio, di vendicarmi.

Sarebbe sbagliato attribuire odio, rancore, vendetta all'istinto di sopravvivenza, come se fossero di una forma estrema di protezione. Quando ci riteniamo minacciati nella nostra sopravvivenza scatta la difesa. In situazioni estreme la necessaria difesa può legittimare l'eliminazione fisica di chi mi vuole nuocere ingiustamente. Questo legittima l'esercizio della giustizia punitiva nella società, che però è una forma di giustizia e dunque mai deve lasciarsi guidare dal risentimento, dall'odio, o peggio dal desiderio di vendetta. Per restare giustizia deve essere oggettiva, deve semplicemente proteggere, riparare il torto e riabilitare, se possibile, chi ha agito male, come lo afferma la prima lettura quando dice che è necessario rimproverare apertamente chi fa il male, come Gesù stesso ha fatto senza posa, con coraggio, con lucidità, condannando il peccato ma non il peccatore. Anzi, condannando il peccato per condurre il peccatore a pentirsi.

Mai il risentimento, il rancore, per non parlare dell'odio e della vendetta, mai sono forme dell'istinto di difesa o di protezione. Mai possono essere considerate come espressioni della giustizia. Al contrario, sono le forme supreme di orgoglio, un orgoglio ben illustrato dall'agghiacciante affermazione di Lamech nel capitolo quarto del libro della Genesi: Lamech disse alle mogli Ada e Silla: «Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamech, porgete l'orecchio al mio dire: Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette volte». Questo è orgoglio! Per covare odio, per serbare rancore occorre isolarsi, richiudersi in sé; occorre ridurre l'altro al male che mi ha fatto; occorre rifiutare di vedere che mai nella vita i torti e le ragioni sono tutte da una parte. La dinamica del risentimento, del rancore, dell'odio sono forme di follia che ci rodono dentro, ci rinchiudono in una forma di paranoia. Non è un caso che nel linguaggio comune si parli dell'odio che acceca.

Per questo è impossibile accedere direttamente al perdono senza prima uscire dal nostro accecamento, senza uscire dal nostro isolamento, senza rinunciare al nostro ripiego su noi stessi, nel modo chiaramente indicato sia nel libro della Genesi che nel Vangelo.

Nel libro della Genesi Dio invita Caino non prima di tutto a perdonare Abele, ma a riannodare il dialogo con il Padre, con il Signore. In fondo lo invita a pregare. Esattamente come Gesù nel Vangelo: Pregate per i vostri nemici. Dio invita Caino, Gesù invita ognuno di noi ad alzare lo sguardo: "Perché abbassi lo sguardo? Alza gli occhi, guardami negli occhi": questo dice il Padre, questo è il primo passo verso il perdono. Ed in effetti anche il Vangelo per invitarci a perdonare ci chiede di volgere il nostro sguardo verso il Padre che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.

Solo il Signore, solo il Padre che - come dice il Salmo - perdona le nostre colpe, guarisce le nostre infermità, può liberare il nostro cuore dalla morsa orgogliosa del risentimento e del rancore. Chiunque abbia mai ricevuto la grazia di dare un perdono vero lo ha sperimentato. E' come un nodo che si scioglie, come un macigno che ci si toglie dal cuore. E non è per caso che la liberazione dal rancore e dal risentimento spesso si manifesti attraverso un fiume di lacrime, lacrime non di dolore ma di liberazione e di gioia.

La prima condizione quindi per poter perdonare è uscire dal proprio isolamento. Ma ve ne è una seconda molto importante, illustrata nel vangelo di oggi attraverso un dettaglio da non lasciarsi sfuggire: Gesù alterna il tu con il voi. Il vangelo dice: Tu porgigli anche l'altra guancia. Tu lascia anche il mantello, ma poi afferma Amate (voi, insieme) i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché (insieme, voi) siate figli del Padre vostro che è nei cieli. Affinché siate voi perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste. E a questo fa eco la prima lettura quando dichiara: Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: "Siate santi (voi, come comunità), perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo"». Questo vuol dire che il perdono è possibile solo all'interno di una dinamica comunitaria. Non dipende solo da un ‘me' isolato, ma da un ‘noi'. E' qualcosa che può nascere, può crescere solo comunitariamente. Lo abbiamo visto: il rancore, la vendetta, l'odio sono sempre espressioni di una de-solidarizzazione: non voglio più vedere l'altro in sé, ma solo in rapporto a me, lo riduco al male che mi ha fatto.

Pensiamoci: quanto è strano il fatto che una persona per la quale io provo solo repulsione, è invece stimata ed amata dagli altri. Questo è il risultato dell'accecamento di cui parlavamo prima. L'odio, il rancore, la vendetta dominano in una società di individui in competizione tra di loro ed è per questo che il terreno più propizio per i conflitti è spesso il sesso e il mondo del lavoro, dove la competizione domina, dove quello che è positivo per l'altro, è spesso negativo per me. Invece il perdono può sbocciare solo in una comunità di persone che si sforzano di essere solidali e corresponsabili, dove le relazioni non sono guidate dall'istinto sessuale facilmente predatorio, né dalla competizione, ma dove il bene dell'altro diventa anche il mio bene, dove posso provare gioia nel bene dell'altro.

Il perdono può nascere solo quando c'è scambio, quando c'è dialogo, quando c'è aiuto reciproco. In ogni comunità, in ogni famiglia, in ogni gruppo di lavoro nascono inevitabilmente incomprensioni, antipatie, gelosie, passioni, ma grazie a Dio non nascono in tutti allo stesso momento, non nascono in tutti per le stesse persone, non nascono in tutti per gli stessi motivi ed questo permette che ci si possa aiutare reciprocamente. E' allora che si può esercitare la splendida beatitudine: Beati gli operatori di pace (si potrebbe tradurre: beati gli operatori di perdono), perché saranno chiamati figli di Dio. Tutti siamo chiamati ad essere operatori di pace in questo senso. Tutti dobbiamo avere a cuore, ogni volta che vediamo nascere e svilupparsi intorno a noi incomprensioni, gelosie, rancori, risentimenti, di non gettare olio sul fuoco attraverso il pettegolezzo o le forme di complicità che conducono a prendere partito per l'uno o per l'altro, partito per l'uno contro l'altro. Dobbiamo tutti sforzarci di lenire le ferite, di riconciliare i nemici, di giustificare chi sembra essere nel torto, di mediare.

Non è per caso che vi è una così stretta parentela tra la beatitudine degli operatori di pace e l'insegnamento di Gesù sul perdono: Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio, dice Gesù, e poi ancora: Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli. In entrambi i casi questi atteggiamenti sono l'espressione dell'essere figli del Padre. E' per questo che il perdono non è e non può essere prima di tutto una mera questione di volontà, ma richiede una strategia comunitaria, richiede immaginazione, richiede intelligenza e a sempre tanta diplomazia. E' possibile solo quando veramente ci si sente solidali gli uni con gli altri, ci si riconosce corresponsabili.

Allora, non scoraggiamoci mai di fronte alla nostra impossibilità di perdonare. Il Signore non ci ha detto che si tratta di una cosa semplice o che si produce dall'oggi al domani. Il perdono va costruito giorno dopo giorno, paradossalmente non prima di tutto perdonando, ma facendosi operatori di pace, operatori di perdono nelle comunità delle quali siamo parte, nella famiglia, nell'ambito del lavoro. Più io aiuto gli altri a perdonare, più posso sperare che nel momento nel quale avrò io bisogno di perdonare, troverò nella mia comunità l'operatore di pace di cui avrò anche io bisogno, troverò l'operatore di perdono che mi aiuterà a farlo.

Proprio come il risentimento, il rancore, l'odio risultano dall'orgoglio che isola, che richiude in sé ed acceca, così il perdono è possibile solo grazie all'umiltà che riconosce il bisogno di aiuto. Abbiamo bisogno di aiuto per perdonare. Non ci arriviamo da soli. Non ci riusciamo da soli. Il perdono ha bisogno dell'umiltà che si lascia consigliare e che chiede consiglio. Quando ho difficoltà a perdonare, devo farmi aiutare, devo andare da qualcuno per farmi aiutare a perdonare. Ha bisogno, il perdono, dell'umiltà che si lascia pacificare. Ha bisogno dell'umiltà che accetta di pregare per chi ci fa il male e soprattutto ha bisogno dell'umiltà che continua a sperare contro ogni speranza.

Il perdono allora non è impossibile, ma ciò non vuol dire che sia puramente una questione di volontà. Il perdono è qualcosa che dobbiamo costruire, al quale dobbiamo pazientemente lavorare e per il quale la prima cosa che possiamo fare è quella di cercare di vivere questa splendida beatitudine: Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

 

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