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TESTO Pentirsi per credere

don Fulvio Bertellini

XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (29/09/2002)

Vangelo: Mt 21,28-32 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. 29Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.

Ancora una parabola della vigna. Ma stavolta, si tratta di un padre e due figli (ed è curioso notare che lo stesso passaggio dall'immagine economica all'immagine familiare si ha nel Vangelo di Luca, nelle parabole del perdono, al capitolo 15: prima la pecora smarrita, poi la moneta smarrita, poi la parabola dei due figli: quando ci si avvicina al cuore del mistero del Regno dei cieli, si usano sempre immagini tratte dalla relazione familiare: lo sposo, il padre, i figli, i fratelli...). Già sappiamo che la vigna è Israele, e che l'immagine è usata più volte dai profeti, e nel Vangelo di Giovanni ripresa da Gesù: "io sono la vite, voi i tralci".

Un giro in periferia

Prima di andare al cuore del messaggio di questo vangelo, fermiamoci su questa immagine della vite. Nel bacino mediterraneo, con l'ulivo, era una delle coltivazioni più importanti. La mietitura e la vendemmia scandivano il ritmo della vita agricola e sociale: improvvisi momenti di abbondanza, in una vita che per la maggior parte delle persone, e per la maggior parte dell'anno, era caratterizzata da un certo senso di precarietà e di povertà. Poteva capitare in diversi periodi di patire la fame, o di trovarsi in ristrettezza; ma nel momento della vendemmia si poteva finalmente "aprire il cuore alla gioia", vale a dire mangiare e bere, e bere anche quel qualcosa in più che rende allegri.

L'albero della festa

Dunque il frutto della vite è per eccellenza il frutto della gioia e della festa; ed è tanto più prezioso quanto più la sua coltivazione è difficile e impegnativa. La vite infatti non nasce a caso, ma ha una storia; il grano si semina in una stagione e si raccoglie nell'altra, ma occorrono anni per impiantare una vigna. Anche la forma del tronco e dei tralci richiama l'idea di una storia che si sviluppa, che cresce, che serpeggia e si dirama: per questo i profeti la adottano per rappresentare la storia di Israele: la vigna scelta, piantata da Dio, coltivata con cura, che poi inspiegabilmente produce uva selvatica, e viene per questo abbandonata e devastata, in attesa che un germoglio nuovo rispunti e qualcuno se ne prenda di nuovo cura. Perché la vite ha bisogno di cure, di attenzioni. Non solo di manovalanza di massa, ma anche di mani competenti ed esperte.

Una questione di passione

Ecco perché il padre della parabola manda i figli nella vigna: per la vendemmia bastano i salariati a giornata, che abbiamo visto domenica scorsa, ma per la potatura, la legatura, e tutti gli altri lavori della cura del vigneto serve uno sguardo diverso, un'attenzione diversa, lo sguardo di chi sente sua la vigna, e in qualche modo la "ama". La vigna del padre non è una proprietà come tutte le altre, e il lavoro nella vigna non è un lavoro come tutti gli altri: ci vuole passione, e al figlio è richiesto di condividere la stessa passione del padre. Per cui, nell'ottica della parabola, dire no al lavoro della vigna è rifiutare il padre, e accettare il lavoro è dire sì all'amore del padre.

Correttezza e cortesia

Il primo figlio risponde "Sì, signore". In italiano suona molto militaresco, in greco probabilmente non ha questa connotazione. Nel linguaggio comune, indicherebbe la deferenza con cui un figlio si rivolge al padre. Ma nel linguaggio biblico, "Signore" indica inevitabilmente l'unico Signore, e l'unico Dio. Allusione alle preghiere con cui continuamente il popolo, nel tempio, invoca il suo Dio. Ma che non corrispondono al cuore. E difatti il figlio non va a lavorare nella vigna. C'è con il padre un rapporto formale, di deferenza, ma non un vero rapporto di amore.

Oltraggio all'autorità

Il contrasto con il secondo figlio è enorme: "non ne ho voglia" è già per uno dei nostri bambini una risposta sgarbata (anche se poi il più delle volte, a quel che vedo, va a finire che il genitore cede); ma nel mondo antico rasenta l'insulto. E' un'offesa all'autorità del padre di famiglia, che inspiegabilmente viene lasciata passare. E altrettanto inspiegabilmente, il figlio si pente e va nella vigna. La parabola precipita verso la domanda finale, un trabocchetto che sorprende i principi dei sacerdoti e gli anziani.

Autocondanna

La risposta è piuttosto ovvia: il figlio sgarbato e irriverente è colui che compie la volontà del Padre, mentre il figlio corretto e rispettoso a parole, di fatto è lontano da lui. Meno ovvia la conclusione che ne trae Gesù: sono loro, anziani e capi dei sacerdoti, coloro che si nascondono dietro belle parole, e non compiono la volontà di Dio. Per noi che ascoltiamo si impone la domanda: siamo uomini dalle belle parole, o sappiamo fare la volontà del Padre?

Tra il dire e il fare

Dobbiamo però guardarci da un'interpretazione troppo moralistica della parabola, del tipo "fatti, non parole", o "quel che conta è il fare". I pubblicani e le prostitute passano avanti ai capi del popolo, perché hanno creduto a Giovanni Battista, hanno riconosciuto in lui l'araldo del Regno di Dio. I capi del popolo non gli hanno creduto prima; e non si sono neppure pentiti in seguito, e insistono a rifiutare la predicazione di Gesù.

Il problema è riconoscere l'inviato del Regno di Dio, obbedire a lui, lavorare nella vigna giusta, e non coltivare unicamente i propri interessi. Si può essere persone oneste, rispettabili, che non fanno nulla di male, ed essere fuori dal Regno di Dio.


Flash sulla I lettura

"Voi dite: non è retto il modo di agire del Signore...": al tempo di Ezechiele gli ebrei erano esiliati in terra di Babilonia; il profeta interpretava la sciagura come una conseguenza del peccato del popolo, ma gli israeliti contestavano la sua predicazione, e il modo di agire di Dio, perché si ritenevano giusti, e ingiustamente puniti, mentre i malvagi e gli empi prosperavano.

"Se il giusto si allontana dalla giustizia, per commettere l'iniquità e a causa di questa egli muore...": il profeta comincia scalzando la presunzione di innocenza degli interlocutori. Il giusto non può essere sicuro di rimanere nella giustizia, e deve ancora vigilare sulla sua condotta. Se cade nell'ingiustizia, la sua sorte è la stessa del peccatore. Il monito ricade sugli ascoltatori del profeta, e ricade oggi ancora su di noi. Spontaneamente ci consideriamo giusti, onesti, buoni cristiani. Ma forse non ci rendiamo conto di essere soltanto persone tiepide e innocue, che non fanno nulla di male. Basta questo per essere nella giustizia (che nel linguaggio profetico, e anche in quello del Vangelo di Matteo, è il compiere la volontà di Dio)?.

"E se l'ingiusto desiste dall'ingiustizia....": ancora più scandalosa per gli interlocutori del profeta è la conclusione: Dio non punisce immediatamente l'empio, ma attende la sua conversione. Ed è possibile con il pentimento cancellare le colpe commesse. In tal modo la critica agli esiliati si fa stringente: invece di guardare ai peccati altrui, e contestare l'agire di Dio, dovrebbero seriamente assumere la lezione della storia e ritornare di tutto cuore a Dio.

Flash sulla II lettura

Paolo indica come obiettivo ai Filippesi il raggiungimento della piena comunione "rendete piena la mia gioia con l'unione dei vostri spiriti...". L'appello all'unità non è però ricerca di uniformismo, o appiattimento autoritario, livellamento delle coscienze. L'apostolo traccia un percorso preciso, attraverso cui raggiungere la vera comunione: prima bisogna aver fatto l'esperienza della "consolazione in Cristo", della "comunanza di spirito", di "sentimenti di amore e compassione": solo passando per queste esperienze di base, si arriva alla "pienezza della gioia": "l'unione degli spiriti, la stessa carità, i medesimi sentimenti". E anche una volta che si è raggiunta una avanzata comunione spirituale, occorre sempre proteggerla dallo "spirito di rivalità e vanagloria", il nemico che minaccia costantemente la vita di ogni comunità cristiana (anche le nostre oggi). L'unico rimedio è "considerare gli altri superiori a se stessi"; ma a questo punto Paolo esce dall'argomentazione astratta e teorica, e passa a parlare di Gesù, a raccontare ancora una volta la sua vicenda. Paolo non sviluppa ulteriormente un'utopia comunitaria, ma invita a contemplare Gesù e a trovare in lui le radici dell'agire. La vicenda di Gesù è riletta da Paolo nell'ottica dello "svuotamento": Gesù "spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo": e solo assumendo il suo stile diventa possibile costruire un'autentica comunione, che non ha per oggetto l'autoesaltazione di un gruppo umano, ma la lode riconoscente a Dio: "ogni ginocchio si pieghi... e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a lode di Dio Padre". Il rischio, per i Filippesi come per noi, è di accontentarsi di "stare bene insieme". Ma Paolo ci ricorda, a noi come ai Filippesi, che staremo veramente bene insieme solo quando tutto l'universo renderà lode al Padre, in Cristo Gesù.

 

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