PERFEZIONA LA RICERCA

FestiviFeriali

Parole Nuove - Commenti al Vangelo e alla LiturgiaCommenti al Vangelo
AUTORI E ISCRIZIONE - RICERCA

Torna alla pagina precedente

Icona .doc

TESTO Dove c'è Speranza, c'è Vita

don Alberto Brignoli  

don Alberto Brignoli è uno dei tuoi autori preferiti di commenti al Vangelo?
Entrando in Qumran nella nuova modalità di accesso, potrai ritrovare più velocemente i suoi commenti e quelli degli altri tuoi autori preferiti!

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (10/11/2013)

Vangelo: Lc 20,27-38 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 20,27-38

In quel tempo, 27si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: 28«Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. 29C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. 32Da ultimo morì anche la donna. 33La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». 34Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Forma breve (Lc 20, 27.34-38):

In quel tempo, disse Gesù ad alcuni8 sadducèi, 27i quali dicono che non c’è risurrezione: 34«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Ci avviciniamo alla conclusione dell'anno liturgico, e come ogni anno i testi della Liturgia della Parola ci parlano di ciò che va "oltre il qui e ora", di ciò che "trascende" la realtà attuale, delle "cose ultime" che vanno ben al di là del quotidiano: ciò che in termini teologici si definisce come "escatologia".

E contrariamente a quanto si è soliti pensare, la concezione cristiana dell'escatologia non si riduce a un'attesa (magari pure inoperosa) di ciò che avverrà alla fine dei tempi, con il ritorno del Signore alla conclusione della storia per giudicare il mondo. Senz'altro, la dimensione dell'attesa della rivelazione è presente in maniera fondamentale: ma a ciò si accompagna un'altra dimensione altrettanto importante, che porta il credente a evitare l'inoperosità e a fare di tutta la sua vita una "esistenza escatologica" (come diceva R. Bultmann). E questa dimensione, è la dimensione della speranza.

Questa parola, oggi ritorna esplicitamente almeno due volte, nella prima e nella seconda lettura: ed è su questa parola che vorrei soffermarmi a riflettere. C'è da dire che nell'ultimo decennio parlare di speranza in ambito cristiano è divenuto molto usuale. Tutti e tre i Pontefici di questo inizio di millennio ne hanno parlato esplicitamente. Ricordiamo una delle ultime interviste giornalistiche di Giovanni Paolo II divenuta poi un libro ("Varcare la soglia della speranza"), ma poi addirittura una lettera enciclica di Benedetto XVI ("Spe salvi" - "Nella speranza siamo stati salvati"), fino ai discorsi di Papa Francesco che in più di un'opportunità ha usato questa espressione forte ed efficace: "Non lasciamoci rubare la speranza". Sicuramente, la situazione di profonda crisi socio-economica che ormai ci stiamo tirando dietro da almeno sette anni ha contribuito a creare un clima nel quale parlare di speranza è divenuto quasi un imperativo categorico.

Ma come dobbiamo parlare di "speranza" per essere ritenuti credibili dall'uomo contemporaneo? Che cosa dice a noi, oggi, la virtù teologale della Speranza?

Un po' per sfizio letterario, sono andato a vedere l'etimologia della parola "speranza", e vi ho trovato un'interpretazione interessante secondo cui "sperare" deriverebbe dalla radice di una lingua indoeuropea che significa "tendere" a qualcosa. Effettivamente, la speranza richiama a una tensione verso qualcosa, poiché ci fa desiderare qualcosa cui puntiamo, e pure con una certa intensità. La speranza, quindi, non può rappresentare l'attesa inoperosa di qualcosa che probabilmente accadrà, bensì un'attesa viva e vivace di qualcosa che certamente accadrà, anche se non si ha la certezza di quando questo avverrà (se fosse certezza, non sarebbe più speranza...).

Stando alla prima lettura, la speranza che pervadeva il cuore dei sette fratelli Maccabei era di ottenere la risurrezione dai morti e la vita eterna: ma per fare questo, nessuno di essi si è ritirato nella comodità di una meditazione trascendentale o nella ricerca pacifica del benessere interiore. Al contrario, nessuno di essi ha esitato a professare la fedeltà alle proprie tradizioni e alla propria religione fino alla conclusione della propria esistenza terrena, ritenuta addirittura di poco valore rispetto alla speranza futura. Lo stesso Paolo, nella seconda lettura, parla del dono fatto a noi da Dio: "Una consolazione eterna e una buona speranza", a conferma di "ogni opera e parola di bene" che comunque il cristiano è chiamato a continuare a compiere.

In parole semplici, e per venire un po' "al concreto": vivere nella speranza per il cristiano non significa aspettare la Salvezza che viene da Dio come un premio consolatorio dopo una vita di sofferenze, di dolori e di dispiaceri. Significa, piuttosto, che nonostante nessuno ci tolga dolori e dispiaceri, ad ogni modo nessuno pure ci nega momenti di gioia e di grande entusiasmo, derivanti dalla voglia di vivere e dal quel grande desiderio di costruire il Regno di Dio che, con una sola parola, chiamiamo speranza.

La speranza cristiana si concretizza in una vita vissuta intensamente in ogni istante, nella profonda convinzione che c'è sempre qualcosa per cui vale la pena vivere, lottare, anche soffrire, e - se necessario - morire. Significa essere profondamente convinti che il male e la morte non hanno l'ultima parola sulla vita. Significa sapere che ogni piccola cosa che facciamo costruisce vita dentro e intorno a noi. Ogni piccola cosa: ogni gesto, ogni sguardo, ogni movimento, ogni incontro, ogni parola, ogni situazione affrontata con serietà, ogni dolore, piccolo o grande che sia, ogni sentimento, ogni respiro, ogni progetto, ogni sogno... ogni cosa che dica "vita" dice, in fondo, la nostra speranza.

Perché è proprio vero, come dice il proverbio, che "finché c'è vita c'è speranza". Dove c'è speranza c'è vita, perché la speranza cristiana è davvero l'ultima a consegnarsi alla morte: per poi trasformare pure lei nuovamente in vita.

 

Ricerca avanzata  (54082 commenti presenti)
Omelie Rituali per: Battesimi - Matrimoni - Esequie
brano evangelico
(es.: Mt 25,31 - 46):
festa liturgica:
autore:
ordina per:
parole: