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TESTO Sette fratelli nella vita ventura

mons. Roberto Brunelli

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (10/11/2013)

Vangelo: Lc 20,27-38 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 20,27-38

In quel tempo, 27si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: 28«Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. 29C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. 32Da ultimo morì anche la donna. 33La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». 34Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Forma breve (Lc 20, 27.34-38):

In quel tempo, disse Gesù ad alcuni8 sadducèi, 27i quali dicono che non c’è risurrezione: 34«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Tutte le civiltà del mondo antico non attribuivano ai numeri un semplice valore aritmetico, come facciamo noi, ma spesso li caricavano di una valenza simbolica: con i numeri richiamavano memorie, esprimevano concetti. Lo fa anche la Bibbia, specie con alcuni (il tre, il sette, il dodici, il quaranta...) carichi di complesse risonanze. Nelle letture di oggi, che parlano della vita eterna, torna due volte il sette, simbolo di pienezza, di totalità.

La prima lettura (2Maccabei 7) presenta un episodio di quella che molti considerano la prima persecuzione religiosa della storia, ordinata nel secondo secolo avanti Cristo dal re di Siria, per costringere gli ebrei a rinunciare alla loro fede. Molti resistettero sino al martirio, come i sette fratelli detti Maccabei, torturati e uccisi sotto gli occhi della loro madre, la quale eroicamente li esortava a non cedere, pensando al premio che per questo avrebbero ricevuto nella vita eterna.

Di sette fratelli e della loro condizione nella vita ventura parla anche il vangelo (Luca 20,27-38). I sadducei, i quali non credevano nella vita dopo la morte, cercano di confutare gli insegnamenti di Gesù sottoponendogli un caso-limite, verosimilmente inventato. "Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se a qualcuno muore un fratello che ha moglie, ma senza figli, suo fratello si prenda la vedova e dia una discendenza al proprio fratello. C'erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette: e morirono tutti senza lasciare figli. Da ultimo anche la donna morì. Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l'hanno avuta in moglie".

Chi pone la domanda fa riferimento alla legge mosaica detta del levirato (a un uomo era imposto di dare discendenti al fratello defunto, sposandone la vedova). In verità, per presentare lo pseudo-problema bastava richiamare un fatto comune: qualunque vedova che si rimariti, di quale sarà moglie nell'aldilà? Né occorre precisare che la stessa domanda vale per un uomo, che in questa vita abbia contratto più di un matrimonio. Ma ecco la risposta di Gesù: nella vita eterna non ha più senso parlare di moglie e marito; chi raggiunge la perfezione dell'esistenza, la vive da figlio di Dio; vive cioè l'amore per Lui e per i fratelli, senza più i limiti e i condizionamenti derivanti dall'avere un corpo. Non ci sarà più bisogno di dimostrare l'amore al prossimo dando un pane a chi ha fame, né passando le notti al capezzale del malato, e neppure - per venire al caso in questione - attraverso l'esercizio della sessualità.

Molti pongono l'amore al centro della propria vita, intendendo per amore l'appagamento degli istinti sessuali. Ma una tale concezione riduce il partner a uno strumento, a una "cosa" di cui servirsi. In altre parole, spesso si dà il nome di amore a quello che in realtà è una manifestazione di egoismo. Sta qui la causa, a ben guardare, del fallimento di molti matrimoni: se si concepisce il coniuge come chi può soddisfare i propri bisogni, si capisce perché, quando non è più in grado di farlo o si incontra chi si ritiene lo possa fare meglio, lo si accantona. L'amore invece, nell'ottica evangelica, è l'opposto: è dono di sé, è ricerca del bene dell'altro, che nel matrimonio si esprime in grado eminente attraverso il rapporto sessuale. "Quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito", dice Gesù. Il che non significa ignorare chi si è amato: l'amore continua, ma, immersi nell'amore di Dio, tra noi ci si amerà in altro modo, più perfetto e completo; la sua manifestazione fisica vale nella vita presente; nella vita eterna, pienezza della comunione con Dio, Amore infinito e perfetto, l'amore umano sussiste e persiste, ma finalmente liberato dai condizionamenti terreni: del tempo, dello spazio, della fisicità.

 

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