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TESTO Vivere la vita da risorti

padre Gian Franco Scarpitta   Chiesa Madonna della Salute Massa Lubrense

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (10/11/2013)

Vangelo: Lc 20,27-38 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 20,27-38

In quel tempo, 27si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: 28«Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. 29C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. 32Da ultimo morì anche la donna. 33La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». 34Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Forma breve (Lc 20, 27.34-38):

In quel tempo, disse Gesù ad alcuni8 sadducèi, 27i quali dicono che non c’è risurrezione: 34«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Dialogare e confrontarsi è molto bello e costruttivo, anche quando siamo di opinioni differenti. Comunicare con chi non condivide il nostro pensiero, scambiare idee e opinioni, metterci a raffronto con gli altri è esaltante ed arricchisce. Il dialogo insomma è molto bello e promettente. Purché si svolga nel reciproco rispetto e nella disponibilità di mutua accoglienza e vicendevole valorizzazione delle altrui opinioni. Non c'è più dialogo invece quando uno degli interlocutori tende a prevaricare sull'altro o quando si tende a combattere e a mettere in crisi chi non la pensa come noi. Così avviene ad esempio nel proselitismo o nell'anticlericalismo, dove ogni mezzo, anche il più insulso e ridicolo, diventa legittimo quando serva a mortificare o a screditare chi è lontano dalle nostre convinzioni. E così avviene ad opera di questi Sadducei, persone refrattarie alla concezione di risurrezione dai morti avulse e distanti da una qualsiasi idea sulla vita eterna, che ora tendono ad attirare Gesù in una trappola. Gli pongono infatti la questione di una donna che ha avuto sette coniugi fratelli del primo marito estinto, tutti quanti deceduti (similare caso si trova in Tobia) senza lasciare prole. Alla resurrezione, quando tutti quanti si sarà risuscitati, di chi sarà moglie questa vedova, visto che tutti l'hanno avuta come coniuge nella vita presente?

Da parte dei Sadducei si pone una comparazione fra le relazioni sociali dei nostri giorni con quelle presunte della futura gloria definitiva, e si propongono per il futuro le stesse caratteristiche materiali della vita odierna: secondo lo schema materiale sadduceo, come adesso si prende moglie e marito, anche al momento della risurrezione si dovrà prendere moglie e marito. E anche nella dimensione futura della gloria dovrebbero sussistere le leggi e le prescrizioni attuale. Il caso posto da costoro infatti richiama la cosiddetta "legge del Levirato" in uso presso la legislazione ebraica, per la quale quando una donna resta vedova senza prole, deve sposare il fratello dei coniuge deceduto (Levir=Cognato) per dare una continuità al passaggio dell'eredità.

Quella che viene posta a Gesù è una questione straordinaria: di chi sarà moglie questa donna alla risurrezione, visto che tutti e sette i fratelli l'hanno avuta come consorte?

Ma Gesù rivela l'infondatezza di questa osservazione: le cose del cielo non collimano affatto con quelle della terra, per cui non sussisteranno, alla risurrezione finale, i medesimi rapporti di parentela che caratterizzano ora il nostro vissuto. Non ci troveremo a dover affrontare le questioni attuali di nazireato, perché già al momento della morte tutti quanti saremo uno nel Signore e così pure alla resurrezione finale: saranno scomparse le suddette relazioni e tutti ci riconosceremo gli uni gli altri in un rapporto di estrema esultanza nella gloria, che ci renderà tutti simili nel Cristo.

Il problema della conciliabilità fra la resurrezione e la prescrizione del Levirato insomma non si pone, perché al momento finale incontreremo un mondo rinnovato e scevro dalle intemperanze di cui il presente storico è caratterizzato, vivremo una dimensione che avrà del nuovo, dell'universalmente valido e del meraviglioso per la quale ci si dischiuderanno "cieli nuovi e terra nuova" (2 Pt 3, 13) che richiamano le promesse di Isaia e che delineano una situazione di benessere nella piena comunione con Dio che noi vedremo faccia a faccia e con cui instaureremo una comunione e una familiarità illimitata che sarà la nostra salvezza.

Gesù risolve immediatamente il problema oggetto di controversia e ne pone subito un altro, che costituisce immediatamente una sfida al pensiero sadduceo: quello che conta, dice Gesù, è la fede nella risurrezione, la quale è garantita anche dai codici scritturali in uso presso i Sadducei. Chiama così a testimone Mosè, nell'episodio della teofania del roveto, quando Dio gli si rivela come il Dio dei vivi e non dei morti: ""Che poi i morti risorgano lo ha indicato anche Mosè, a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui". Un Dio insomma che attualizza e prolunga la vita dei patriarchi configurandosi come risurrezione e vita eterna.

Il libro dei Maccabei, dal quale è tratto un episodio nella prima Lettura di oggi, narra la vicenda di alcuni fratelli che accettano di buon grado di essere torturati atrocemente davanti alla madre pur di non cedere al re; uno di essi è ridotto anche in fin di vita, ma non perdono la speranza: è bello morire per mano di uomini, quando si sa per certo che ci attende la risurrezione per la vita.

Non possiamo dimenticare del resto che "la nostra patria è nei cieli" e anche la vita che giorno dopo giorno si costruisce in questo mondo ha un apice nella gloria futura della risurrezione, che è l'incontro definitivo con il Dio vivente che tutti quanti ci destina alla stessa gloria del Risorto. La fede nella risurrezione, che ci separa dai Sadducei anni luce, ci incute quindi la certezza che il presente avrà un epilogo di gloria, in un traguardo al quale tutti quanti aneliamo. Essa ci infonde la motivazione per assumere il presente fino in fondo vivendo attimo dopo attimo, con estrema creatività, il nostro presente per costruire già sin d'ora la gloria futura. Vivere la vita da risorti è la nostra fondamentale vocazione, che ci spinge a fuggire il peccato e a perseverare nel bene ai fini di trovare la vita nella stessa sequela terreno del Cristo Risorto, mentre la persistenza nel peccato è ostinazione a voler procurare la propria condanna. La fedeltà che avremo mostrato a Dio al presente ci dischiuderà la visione beatifica di Dio nella dimensione ultima del Paradiso, luogo di perenne beatitudine nella visione beatifica dello stesso Risorto. La risurrezione finale è infatti la conseguenza del vivere da risorti la vita e sarà la pienezza di un incontro singolare e significativo che nell'intimità realizzeremo con il Signore. Il Dio dei vivi e non dei morti.

 

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