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TESTO Umili e pentiti davanti a Dio

padre Antonio Rungi

XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (27/10/2013)

Vangelo: Sir 35,15-17.20-22|Sal 33|2Tm 4,6-8.16-18|Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù 9disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Il brano del Vangelo di questa XXX domenica del tempo ordinario interroga fortemente la nostra coscienza. Siamo giusti o siamo peccatori? Pensiamo di essere più retti e giusti degli altri solo perché osserviamo esteriormente la legge di Dio o quella civile? Alla scuola di questa lezione di vita che ci dona il Signore nel brano evangelico davvero c'è poco da ritenersi giusti. Non lo sono io, non lo siamo noi, non lo sono gli altri. Solo Dio è giusto e santo. Proprio perché partiamo dall'intima convinzione che siamo peccatori, abbiamo bisogno della misericordia di chi questa giustizia la vive e la esercita con grande amore e imparzialità: Dio.

Il pubblicano e il fariseo. Due fondamentali e contrapposti atteggiamenti che possiamo assumere davanti a Dio e agli altri. Oggi diremo i peccatori pubblici e riconosciuti e i puritani della circostanza. Due atteggiamenti che attraversano la nostra vita, la caratterizzano e a volte ci fanno propendere per quello del pubblicano che si batte il petto perché si riconosce davvero peccatore e ne ha anche la coscienza del peccato nella sua consistenza. Questo comportamento esteriore lo abbiamo anche noi quando facciamo l'atto di pentimento all'inizio della santa messa o della confessione sacramentale. Anche noi ci battiamo il petto, anche con veemenza, dicendo: "per mia colpa, per mia colpa, per mia massima colpa". La consapevolezza della colpa in quel momento ci fa battere il petto, con quale convinzione e soprattutto con quale conseguenza nella nostra vita? Con il cambiamento del nostro agire o continuando ad essere come prima se non peggio di prima? L'altro atteggiamento è del fariseo, nota figura rappresentativa del tempo di Gesù e di ogni tempo, di chi si ritiene giusto e santo perché osserva la legge e neppure di fronte alla carità e alla misericordia non movimenta il suo cuore per venire incontro alle necessità dei fratelli. La legge a cui ispira la sua azione uccide nel suo cuore la dinamica dell'amore, al punto tale che anche davanti a Dio vanta dei meriti, elevandosi alla stessa santità di Dio. L'orgoglio e l'umiltà messi a confronto in questo brano del Vangelo fanno comprendere da un lato l'incidenza che ha sulla vita morale personale, familiare e sociale del comportamento dei presuntosi e dall'altro il positivo risvolto sulla vita di se stessi e degli altri dell'umiltà. Vizio e virtù. Il vizio porta all'umiliazione, la virtù alla glorificazione: "Io vi dico - afferma Gesù circa il pubblica ed il fariseo - questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato". Quanto sono profetiche e vere queste parole del Signore. La storia dell'umanità, anche quella più recente è contrassegnata dalla caduta degli dei, dei dittatori, dei presunti giusti che si autogiustificano ed assolvono, in tutti i campi della vita umana, sociale e religiosa. Quante persone che ci hanno deluso per il loro formalismo e la loro capacità di apparire giusti davanti alla gente e nel privato commettere ogni forma di immoralità. Che hanno giudicato e continuano a giudicare gli altri, assumendo il ruolo di giustizieri di turno, facendo soffrire ingiustamente tante persone. Dall'altro lato incontriamo le persone umili e semplici, che si assumono pesi ed oneri sulle loro spalle, la sofferenza, l'umiliazione, nella consapevolezza dei loro limiti e che tendono a giustificare gli altri e a condannare se stessi, pur essendo davvero santi. E non a caso i santi, quelli veri, si sentivano più peccatori dei veri e riconosciuti peccatori pubblici, che davano e danno scandalo con il loro modo di vivere nella chiesa o fuori della chiesa. C'è molto da riflettere su questi argomenti, dietro anche il continuo richiamo ai nostri doveri di cristiani da parte di Papa Francesco, che in questi primi mesi di Pontificato ribadisce frequentemente la necessità di pentirsi e rinnovarsi nell'amore e nella misericordia di Dio. Nessuno si deve ritenere più giusto dell'altro, facendo una gara a mettere in mostra i meriti e le superiorità, ma tutti dobbiamo sentirci quale realmente siamo peccatori davanti a Dio e batterci il petto chiedendo misericordia per noi, per gli altri e per il mondo intero. Non senza motivo oggi la chiesa ci fa pregare congiuntamente all'inizio della celebrazione eucaristica con queste espressioni: "O Dio, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell'umile penetra le nubi; guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e fa' che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome". Avere confidenza in Dio, per essere giustificati da Lui e non per giustificarci da noi stessi. Da soli non potremmo mai giustificarci perché Cristo sulla Croce ha giustificato l'umanità per il suo peccato e per la sua fragilità.

Abbiamo la piena consapevolezza, anche in base a quanto ascoltiamo nella prima lettura della parola di Dio di oggi, tratta dal libro del Siracide ed è di grande conforto il salmo responsoriale di oggi, che, per quanto sperimentano il dolore, la malattia, la povertà, la miseria, l'emarginazione, l'ingiustizia, è una straordinaria preghiera di speranza e di fiducia in Dio. Nasce spontanea la domanda, davanti a tutti questi imperativi che sgorgano dalla parola di Dio: perché agire in un certo modo, credere e sperare?

La risposta quanto mai esauriente la trova nella seconda lettura di oggi, scritta da Paolo Apostolo al suo amico Timoteo, con espressioni che toccano il cuore e che indicano un percorso di vita di fede, che se è autentico in ognuno di noi, deve seguire la stessa direzione di marcia: "Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione".

Paolo a conclusione della sua vita terrena, avendo la netta percezione che si avvicinava anche per lui la morte e il giudizio di Dio, non si vanta di quanto ha fatto, ma esalta il coraggio di aver conservato la fede e si affida totalmente alla misericordia di Dio. Paolo apostolo è qui come il pubblicano del tempo, non è il fariseo di una volta, scomparso del tutto nella sua vita, ma l'uomo della fede, capace di testimoniare l'amore a Gesù fino al martirio, purificando così con il supremo atto d'amore a Gesù la sua recedente vita di peccatore. Ecco perché che bisogna aver sempre fiducia nel Signore e ascoltare sempre la voce della coscienza e della rettitudine che ci fa' chiedere perdono, piuttosto che avanzare meriti e virtù.

 

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