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TESTO La fede, dono da donare: missione di ogni cristiano

don Alberto Brignoli  

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (20/10/2013)

Vangelo: Lc 18,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù 1diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Poche volte ascoltiamo il brano di Vangelo della Messa domenicale terminare con una domanda. Oggi è una di quelle rare volte: "Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?". La parabola del giudice irriguardoso e della vedova insistente, che con il suo atteggiamento ottiene l'impossibile, ci ricorda che la fede è una lotta, nella quale non possiamo mai darci per vinti, e nella quale, soprattutto, non possiamo stare inoperosi, in attesa di una salvezza che piove dal cielo. Questo aspetto si sposa bene sia con il contesto dell'Anno della Fede che si avvia alla conclusione, sia con quanto Papa Francesco indica nel suo primo messaggio in occasione della Giornata Missionaria Mondiale.

All'inizio del messaggio, il Papa ci ricorda che "la fede è dono prezioso di Dio". E si tratta di "un dono che non si può tenere solo per se stessi, ma che va condiviso", per non diventare "cristiani isolati, sterili e ammalati". Un'affermazione simile ha delle notevoli conseguenze a livello pastorale, che il Papa ribadisce poco più avanti: "La solidità della nostra fede, a livello personale e comunitario, si misura anche dalla capacità di comunicarla ad altri... uscendo dal proprio recinto per portarla anche nelle periferie". In sostanza, ciò significa che possiamo sì ritenerci cristiani praticanti perché partecipiamo ogni domenica all'Eucaristia e magari ci impegniamo pure in alcune attività di una parrocchia o di una comunità: ma questo non basta per dirci cristiani sani e portatori di frutto. Se un cristiano non apre la propria esperienza intima e profonda di Cristo alla testimonianza, all'annuncio, alla missione, è un cristiano "malato". E di cristiani "malati", le nostre chiese sono piene. Malati di che? Malati d'intimismo, malati di sterili sentimentalismi, malati di nostalgia per una fede "di massa" che non c'è più, malati di liturgie roboanti; malati e asfissiati da una fede che non respira bene perché lascia chiuse le porte e le finestre all'incontro con l'altro, soprattutto con l'altro che fa fatica a credere e che spesso ci mette in discussione. Se non ci apriamo alla dimensione dell'annuncio, il cristianesimo malato ci contagerà e ci ucciderà molto più velocemente che qualsiasi persecuzione esterna, perché - questo spesso ce lo ricordava pure Papa Benedetto - i pericoli più grossi per i cristiani non stanno al di fuori della Chiesa, ma nella Chiesa stessa, nella tiepidezza della fede di noi che ci diciamo cristiani.

"La missionarietà" - continua Francesco nel Messaggio - "... non è un aspetto secondario della vita cristiana, ma un aspetto essenziale". Questo significa che l'animazione missionaria nella Chiesa non si può limitare alla sola Giornata Missionaria Mondiale o tutt'al più al mese di Ottobre: la sensibilizzazione missionaria all'interno di una comunità parrocchiale o Diocesana non è "una delle tante attività da fare", ma uno stile, un modo di essere, una modalità di testimonianza cristiana che pervade completamente la vita di una comunità. Come ci ricorda il Papa, la dimensione missionaria all'interno di una comunità si rende concreta nella capacità di "portare con coraggio in ogni realtà il Vangelo di Cristo, che è annuncio di speranza, di riconciliazione, di comunione, di vicinanza di Dio, della sua misericordia".

Allora, missione è soprattutto un modo di essere nella comunità, non una cosa in più da fare rispetto alle altre. Non possiamo permetterci di ritenere che la dimensione missionaria possa essere considerata un affare per pochi, un'attività per tecnici, una specializzazione pastorale da affidare a chi ha maggior sensibilità verso temi come la mondialità, la solidarietà, la cooperazione internazionale. Rischieremmo, nella migliore delle ipotesi, di delegare la missione a un gruppo di fedeli di èlite; ma ancor peggio, la vedremmo come un disturbo alla pastorale ordinaria delle nostre parrocchie, o addirittura la renderemmo un elemento snaturante dell'identità della Chiesa, ridotta così - come disse il Papa ai Cardinali all'inizio del suo Pontificato - alla stregua di una "ONG pietosa" che fa del bene ma che non confessa né annuncia Cristo. La missione nella Chiesa non è proselitismo, e nemmeno assistenzialismo: è annuncio e testimonianza di speranza e di carità.

Il messaggio di Francesco, prima di concludere con un ricordo particolare per tutti i missionari e le missionarie sparsi in ogni parte del mondo e per i cristiani che vivono situazioni di particolare drammaticità e persecuzione a causa della loro fede, ci ricorda un altro aspetto importante, che assume sempre di più le caratteristiche di un fenomeno di attualità. Ci parla, infatti, del generoso impegno delle giovani Chiese che "inviano missionari alle Chiese che si trovano in difficoltà, non raramente di antica cristianità". Oltre a rilevare che si tratta di un fenomeno molto attuale e sentito nelle Chiese di antica tradizione (solamente in Italia contiamo almeno 3000 tra sacerdoti, religiosi e religiose non italiani presenti nelle nostre comunità), il Papa ci ricorda che questo non dev'essere visto come una perdita o una sconfitta, né per le Chiese di antica tradizione (in quanto incapaci di avere nuove vocazioni missionarie) né per le giovani Chiese (che lasciando partire molti dei loro membri potrebbero sentirsi "svuotate" di nuove energie). Invita infatti le chiese locali, soprattutto nella persona dei Vescovi, a "sostenere con lungimiranza e attento discernimento, la chiamata missionaria "ad gentes", sapendo che "donare missionari e missionarie non è mai una perdita ma un guadagno". Ciò significa che non possiamo accampare scuse: non è possibile rinunciare a una profonda e seria pastorale vocazionale missionaria solo perché preoccupati di mantenere un numero adeguato di sacerdoti e religiose per le nostre comunità cristiane. Una pastorale di mantenimento non porterà mai frutto, perché induce una comunità a continuare a guardare a se stessa e ai suoi problemi, affogandovi dentro in quanto incapace di offrire una prospettiva nuova grazie ad un'ottica diversa e più obiettiva.

Aprirsi alla missione "ad gentes" porta le Chiese di antica cristianità a ritrovare "l'entusiasmo e la gioia di condividere la fede in uno scambio che è arricchimento reciproco". Insomma, lasciar partire missionari e missionarie dalle nostre comunità non significa perdere "forza lavoro" o avere meno "operai nella messe" di casa nostra: significa piuttosto sapere che una fede donata è una fede rafforzata, mentre una fede conservata - sia pur con tutti i buoni propositi e le migliori intenzioni - rischia di ammalarsi e di morire soffocata.

 

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