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TESTO Alzare le mani in segno di fede

padre Gian Franco Scarpitta  

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (20/10/2013)

Vangelo: Lc 18,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù 1diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Contro gli Amaleciti stanno combattendo gli Israeliti e i loro referenti sono Mosè, Aronne e Cur. Amalek è un popolo da non sottovalutare, per cui non è sufficiente che Mosè conti solo sulle sue truppe o sulla sua strategia militare: deve confidare in Colui che gli da' la forza.

Da qui questo atto entusiasmante dell'alzare e abbassare le mani: è un atto di estrema fiducia in Dio, il quale lo aveva fatto uscire al paese d'Egitto, lo aveva assistito durante le proteste del popolo nel deserto di Sin e adesso lo ha condotto fin qui a sostenere quella battaglia decisiva.

Mosè si affida al Signore nel combattere contro Amalek e quando le sue braccia sono protese in alto il suo esercito ha la vittoria sul nemico. Quando invece le abbassa, ecco che immediatamente il suo popolo soccombe e ha la meglio l'esercito amalecita.

Cosicché Aronne e Cur intervengono trattenendo in posizione alta ciascuno un braccio di Mosè, che alla fine guadagna il successo militare per il suo popolo.

Non soltanto Mosè, ma anche Aronne e Cur mostrano consapevolezza di non dovere il successo bellico del loro esercito alle sole competenze militari, ma che è indispensabile la forza che procede dall'Alto; dimostrano di avere coscienza che la vittoria si consegue non senza l'aiuto di Dio e pertanto nei suoi confronti esprimono una fede intensa e motivata. Sollevare le braccia e dirigerle verso l'alto equivale a riporre la fiducia in qualcosa che ci trascende o che ci sovrasta, dichiarare un riconoscimento di dipendenza da Qualcuno che sta più in alto di noi e determinare ogni nostra azione sulla base della vicinanza e della protezione che egli nutre nei nostri confronti. Insomma esprime un atto di fede in Dio, concepito come affidamento e donazione disinvolta e spontanea a Lui senza riserve che ha come conseguenza la vittoria e il conseguimento delle nostre aspirazioni.

Dio sostiene chi gli è fedele e mentre guadagna con noi risultati e benemerenze, rende perenne la nostra comunione con Lui, simboleggiata dalle mani tese verso l'alto.

A noi coltivare la fede in ogni circostanza, in qualsiasi situazione e di fronte a qualsiasi evento.

Nessuno può mai concludere di trovarsi a buon punto con l'obiettivo raggiunto della fede, né di aver conseguito un enorme vantaggio sugli altri nell'esercizio della comunione con il Signore: la fede è un processo continuo inestinguibile, una fiamma da ravvivare con frequenza, un percorso che può nascondere svolte, tranelli, luoghi impervi, ma che va affrontato costantemente senza l'illusione di aver raggiunto improvvisamente un traguardo. La fede scaturisce infatti dalla conversione, ma quale processo di conversione può mai dirsi concluso definitivamente? Convertirsi per credere è un itinerario che impegna tutta la vita e sarebbe presuntuoso affermare di aver raggiunto il traguardo una volta per tutte.

Piuttosto, occorrerebbe preoccuparsi su come coltivare costantemente conversione e fede? Come fare a non distoglierci da questo binomio vitale esistenziale per cui ci si converte sempre e sempre di ha fede? Interviene a questo punto il Salmo 140 che ci invita ad mostrare, nei confronti di Dio, la stessa apertura nei confronti di Mosè: "Come incenso salga a te la mia preghiera; le mie mani alzate come sacrificio della sera." La preghiera è lo stesso mosaico tendere le mani al Signore per aspirare a lui e si configura come atto di fede magistralmente espresso.

E anche Gesù ci invita a"pregare incessantemente, senza stancarsi". Questa espressione, presente anche in Paolo, è stata interpretata dalla spiritualità orientale cristiana (Cfr. Il pellegrino russo) con la necessità dell'esicasmo, una pratica di orazione continua che tende a conseguire la pace interiore e la tranquillità per mezzo della ripetizione costante della "preghiera di Gesù" ("Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore") anche quando si è impegnati nelle attività quotidiane. Pratica di orazione molto utile e proficua anche se richiede un esercizio perenne e determinato.

La vera preghiera incessante da rivolgere a Dio deve tuttavia, in ogni caso, scaturire dalla fede e rendersi anzi un'espressione di essa. Quando si prega si è convinti non di una pratica sterile ma di in rapporto intersoggettivo con Colui che con certezza sappiamo che ci ascolta e nella misura in cui si coltiva la preghiera tanto più si alimenta il dono della fede. Tralasciare a lungo la preghiera conduce invece a disperdere il nostro rapporto con Dio e di conseguenza a raffreddare anche noi stessi, i nostri atteggiamenti, le nostre relazioni con gli altri. Man mano che la preghiera viene a mancare nella nostra vita, si diventa asettici, rigidi e scostanti e un po' alla volta ci si preclude nei confronti del trascendente arrivando anche a misconoscerlo o a considerarlo solamente in relazione ai nostri bisogni. E ciò conduce a smarrire se stessi.

La preghiera coltivata a partire dalla fede, esercitata nella consapevolezza che solamente essa può accrescere il mio rapporto con Dio e solo in essa posso sperimentare l'amicizia e l'accompagnamento certo del Signore, incute in me un progressivo senso di sicurezza e di profondo ottimismo, che mi induce a guardare con più attenzione il mondo che mi circonda e ad interpretare rettamente ogni problema e situazione avversa. A condizione che detta preghiera non diventi per me un' imposizione o una "condictio sine qua non" per essere graditi a Dio, ma che venga avvertita come necessità animata da zelo ed entusiasmo.

Ma cosa ravviva in noi la certezza che la preghiera è davvero così proficua? Cosa deve effettivamente motivare il nostro rapporto intenso con Dio?

La risposta ci proviene dalla parabola gesuana del giudice spietato: anche se un giudice sconosce patemi e sentimenti, anche se è solitamente refrattario e insensibile, pur di non essere importunato da una vedova che gli chiede un giusto verdetto, alla fine l'asseconderà sempre. Il termine di paragone non è causale, se osserviamo che nella mentalità giudaica una vedova solitaria difficilmente poteva ottenere giustizia: solo gli uomini potevano avere voci in capitolo quanto agli atti processuali e le donne potevano aspirarsi solo se sostenute dal coniuge. Era molto difficile che una vedova, senza l'appoggio di nessun uomo, potesse ottenere giustizia. Tanto più se il magistrato era spietato e crudele, come quello ora descritto.

Eppure questo giudice si convince ad intervenire a vantaggio di questa ipotetica povera donna semplicemente perché essa è insistente, importuna, non cessa di tormentarlo e vuole ad un certo punto liberarsene.

Ora, se un giudice cinico e occluso soddisfa alla fine le richieste di una vedova, come potrà Dio nostro Padre non ascoltare le nostre orazioni? Davanti a Dio nessuno sarà mai un importuno, ma la preghiera di chiunque verrà sempre ascoltata anche se non sempre immediatamente esaudita. Il fatto che Dio ci ascolti e che comunque, in ogni caso, ci risponda deve spronare ulteriormente la preghiera quale esercizio della nostra fede e accrescere anche la certezza e la consapevolezza della nostra fiducia in Dio che ha come punto di partenza il fatto che Dio ha fiducia in noi lui per primo.

La preghiera continua, fiduciosa e disinvolta costituisce per noi la motivazione fondamentale per cui contro Amalek Mosè sollevava la mani ossia la certezze di poter confidare in lui nelle nostre continue battaglie.

 

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