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TESTO È sufficiente un "Grazie"

don Alberto Brignoli  

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (13/10/2013)

Vangelo: Lc 17,11-19 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,11-19

11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Nella mia cultura "orobica" (ma non solo in essa, credo) esiste un'espressione dialettale popolare che - traduco, per ovvi motivi - suona così: "È sufficiente dirle ‘Grazie'?". È una maniera più o meno velata per esprimere (non senza disagio, o magari per pudore) che non si ha nulla di concreto a disposizione per ripagare un favore o un beneficio ricevuto con generosità da una persona di riguardo. Ottenuto l'assenso dalla persona, poi tutto finisce lì, e non ci si sente più obbligati nei suoi confronti. Ripeto: può anche apparire come una spudorata e sfacciata forma di taccagneria, con la quale ottenere favori "low cost", e poi chi si è visto si è visto. Eppure, quante volte può davvero essere sufficiente esprimere con un "Grazie" sincero la nostra riconoscenza nei confronti di persone o di situazioni della cui preziosità, nell'ordinarietà della vita di ogni giorno, non ci rendiamo neppure conto perché occupati in mille pensieri o perché - peggio ancora - riteniamo che tutto quanto ci sia dovuto, quasi che sempre e solo gli altri (e non noi) fossero quei "servi inutili" che non han fatto altro che il loro dovere nei nostri confronti?

Nell'ambiente in cui io svolgo il mio ministero (che è, di fatto, un ufficio) ho con me diversi collaboratori (la maggior parte di essi più giovani di me) con i quali la relazione è senz'altro di collaborazione, ma a livello puramente lavorativo si tratta certamente di un rapporto subordinato; il rischio di svolgere il proprio ministero sacerdotale in questo ambito è quello di essere poco grati, poco attenti alla dedizione con cui gli altri svolgono il proprio lavoro, perché lo si ritiene innanzitutto un loro dovere. E invece, quanto dovrei imparare a ringraziare per la passione e la gioia con cui lo svolgono, proprio come una missione (al di là del fatto che si lavora per la missione nella Chiesa). Ma io sono convinto che questo sentimento di grazie debba prevalere anche - anzi, ancor di più - nei confronti dei nostri molteplici e svariati collaboratori in ogni ambito di impegno ecclesiale, qualunque esso sia, la stragrande maggioranza delle volte caratterizzato dalla volontarietà. Invece, l'impegno profuso spesso con fatica e certamente senza ricompensa da parte dei nostri catechisti, dei nostri animatori, dei nostri collaboratori, delle persone che in qualsiasi modo ci aiutano a costruire la comunità cristiana, viene da noi clericali letto come un dovere, come qualcosa di dovuto, che scaturisce da quella ministerialità battesimale che ci deve vedere tutti, laici, religiosi e chierici, spontaneamente e naturalmente coinvolti nella costruzione del Regno.

Se sapessimo ringraziare un po' di più di quanto solitamente facciamo...! Se sapessimo valorizzare la ricchezza dell'impegno volontario dato a piene mani da tanti nostri collaboratori! Se sapessimo riconoscere con quanta fatica e quanto sforzo, vincendo parecchie resistenze e forse anche qualche contrasto, molti dei nostri collaboratori donano il loro tempo per la costruzione della comunità e della Chiesa! E noi, invece, pronti solo a riprenderli non appena vediamo che qualcosa non va per il verso giusto (magari per colpa nostra...). Certo è che si diviene capaci di ringraziare quando si è sperimentato prima di tutto su se stessi la grandezza della grazia di Dio. Si è misericordiosi nella misura in cui si riconosce di aver ottenuto misericordia; si è attenti agli altri nella misura in cui si è consapevoli delle attenzioni che anche noi costantemente riceviamo, innanzitutto da Chi sta alla guida e alla testa della nostra vita. Invece, spesso, neppure la misericordia che Dio usa nei nostri confronti è capace di smuovere in noi atteggiamenti di misericordia e gratitudine.

Il Vangelo di oggi è emblematico: su dieci gesti di misericordia e di pietà che Dio ci concede, a mala pena uno solo di essi ci spinge a rendergli grazie. Il restante 90% è tutto scontato e dovuto; anzi, ancor peggio, spesso è protestato, qualora non ci venisse concesso. La vita di fede inizia con un "Grazie", perché è da Dio che riceviamo la grazia di credere in lui; prosegue in perenne rendimento di Grazie attraverso una carità operosa nei confronti dei nostri fratelli più bisognosi; terminerà con un Grazie per la misericordia che Dio, fino all'ultimo, dall'alto della Croce, ha usato nei nostri confronti. Ma si tratta di un cammino di continua e profonda conversione, perché ci viene molto più spontaneo pretendere dagli altri un "Grazie" per ciò che facciamo, soprattutto quando gli altri si dimostrano ingrati o non sanno valorizzare ciò che con fatica facciamo per loro. Dire: "Non è nemmeno capace di dire grazie! Con tutto quello che io ho fatto per lui!", non fa altro che tradire la nostra scarsa sincerità e la nostra mancanza di gratuità nelle relazioni, quasi che ciò che facciamo debba per forza di cose avere il tornaconto della gratitudine... ma noi, nei confronti di Dio, dimostriamo tutto questo senso di gratitudine che pretendiamo dagli altri?

In questo Mese della Missione, io mi sento in dovere di guardarmi indietro e di dire "Grazie" a questa meravigliosa realtà della "missio ad gentes". Grazie a Dio per avermi fatto dono della vocazione missionaria; grazie alla madre Chiesa, che mi ha concesso quindici anni fa l'opportunità di vivere questa esperienza sul campo, e oggi di mettermi a servizio della missione nell'ambito dell'animazione, della cooperazione e della formazione missionaria; grazie alle mie comunità di origine che mi hanno sempre sostenuto e confortato; e grazie soprattutto a quelle che, in Bolivia, mi hanno accolto, per avermi sopportato e amato infinitamente di più di quanto io abbia fatto con loro.

E grazie anche a tutti quei "samaritani lebbrosi", ai quali solo pensiamo di dover dare, e dai quali abbiamo la presunzione di non poter mai ricevere nulla: quest'oggi, sono loro il paradigma della nostra fede.

 

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