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TESTO Commento su Abacuc 1,2-3;2,2-4; Salmo 94; Seconda Timoteo 1,6-8.13-14; Luca 17,5-10

mons. Vincenzo Paglia  

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XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (06/10/2013)

Vangelo: Ab 1,2-3;2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,5-10

In quel tempo, 5gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Introduzione

È un male molto diffuso tra i credenti quello di considerare la fede come un atteggiamento puramente intellettuale, come la semplice accettazione di alcune verità. Cioè una fede che si traduce in una presa di posizione teorica, senza una vera incidenza sulla vita. Questo squilibrio ha come conseguenza lo scandalo della croce: l'esitazione davanti alle difficoltà che incontriamo ogni giorno e che sono sovente insormontabili se noi non siamo abbastanza radicati in Dio. Allora ci rivoltiamo con la stessa reazione insolente e insultante che scopriamo nelle parole del libro di Abacuc.
Le due brevi parabole del testo evangelico ricordano due proprietà della fede: l'intensità e la gratuità. Per mettere in rilievo il valore di una fede minima, ma solida, Cristo insiste sugli effetti che può produrre: cambiare di posto anche all'albero più profondamente radicato. Per insistere sulla fede come dono di Dio, porta l'esempio del servitore che pone il servizio del suo amore prima di provvedere ai suoi propri bisogni. È l'esigenza del servizio del Vangelo che ci ricorda san Paolo (1Tm 1,1), ma questo stesso apostolo ci avverte che "i lavori penosi" trovano sempre l'appoggio della grazia di Dio.
Omelia
Il Vangelo di oggi si apre con gli apostoli che chiedono a Gesù: "Aumenta la nostra fede!". Anziché soddisfare il loro desiderio, Gesù sembra volerlo acuire. Dice: "Se aveste fede quanto un granellino di senapa...". La fede è senza dubbio il tema dominante di questa domenica. Nella prima lettura si ascolta la celebre affermazione di Abacuc, ripresa da san Paolo nella Lettera ai Romani: "Il giusto vivrà per la sua fede". Anche l'acclamazione al Vangelo è sintonizzata su questo tema: "Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede" (1 Gv 5,4).
La fede ha diverse sfumature di significato. Questa volta vorrei riflettere sulla fede nella sua accezione più comune e più elementare: se credere o meno in Dio. Non la fede, in base alla quale si decide se uno è cattolico o protestante, cristiano o musulmano, ma la fede, in base alla quale si decide se uno è credente, o non-credente, credente o ateo. Un testo della Scrittura dice: "Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano" (Eb 11, 6). Questo è il primo gradino della fede, senza il quale non se ne danno altri.
Per parlare della fede a un livello così universale non possiamo basarci soltanto sulla Bibbia, perché questa avrebbe valore solo per noi cristiani e, in parte, per gli ebrei, non per gli altri. Per nostra fortuna, Dio ha scritto due "libri": uno è la Bibbia, l'altro è il creato. Uno è composto di lettere e parole, l'altro di cose. Non tutti conoscono, o possono leggere, il libro della Scrittura; ma tutti, da qualsiasi latitudine e cultura, possono leggere il libro che è il creato. Di notte ancor meglio, forse, che di giorno. "I cieli narrano la gloria di Dio e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento...Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola" (Sal 19, 5). Paolo afferma: "Dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute" (Rom 1, 20).
E' urgente dissipare l'equivoco assai diffuso secondo cui la scienza ha ormai liquidato il problema e spiegato esaurientemente il mondo, senza bisogno di ricorrere all'idea di un essere al di fuori di esso, chiamato Dio. In un certo senso, la scienza ci porta oggi più vicino alla fede in un creatore, che non nel passato. Prendiamo la famosa teoria che spiega l'origine dell'universo con il Big Bang, o la grande esplosione iniziale. In un miliardesimo di miliardesimo di secondo, si passa da una situazione in cui non c'è ancora nulla, né spazio né tempo, a una situazione in cui è cominciato il tempo, esiste lo spazio, e, in una particella infinitesimale di materia, c'è già, in potenza, tutto il successivo universo di miliardi di galassie, come lo conosciamo noi oggi.
Qualcuno dice: "Non ha senso porsi la domanda cosa c'era prima di quell'istante, perché non esiste un 'prima', quando ancora non esiste il tempo". Ma io dico: come si fa a non porsi quella domanda! "Risalire indietro nella storia del cosmo, si afferma ancora, è come sfogliare le pagine di un libro immenso, partendo dalla fine. Giunti all'inizio, ci si accorge che è come se mancasse la prima pagina". Io credo che è proprio su questa prima pagina mancante che la rivelazione biblica ha qualcosa da dire. Non si può chiedere alla scienza che si pronunci su questo "prima" che è fuori dal tempo, ma essa non dovrebbe neppure chiudere il cerchio, dando a credere che tutto è risolto.
Non si pretende di "dimostrare" l'esistenza di Dio, nel senso che diamo comunemente a questa parola. Quaggiù vediamo come in uno specchio e in un enigma, dice san Paolo. Quando un raggio di sole entra in una stanza, ciò che si vede non è la luce stessa, ma è la danza della polvere che riceve e rivela la luce. Così è di Dio: non lo vediamo direttamente, ma come di riflesso, nella danza delle cose. Questo spiega perché Dio non si raggiunge, se non con facendo il "salto" della fede.

 

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