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TESTO Commento su Luca 17,5-10

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XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (06/10/2013)

Vangelo: Lc 17,5-10 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,5-10

In quel tempo, 5gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

COMMENTO ALLE LETTURE

Commento a cura delle Monache Clarisse di Roma

Siamo giunti quasi alla chiusura dell'anno della fede, e la Provvidenza, che sempre ci accompagna dal cielo, ci aiuta attraverso la liturgia di oggi a vivere in dirittura d'arrivo raccogliendo ancora una volta tutta la luce di grazia possibile da questo anno davvero "santo". Fede è infatti la parola chiave delle tre letture di oggi. Per essere più precisi, fede letta attraverso una chiave interpretativa particolare, cioè fede come attesa. E, d'altra parte, è questa la fede che viene chiesta alla Chiesa in questa fase del suo pellegrinaggio inaugurata dall'ascensione al cielo di Gesù: "Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo" (At 1,11), è stato assicurato dagli angeli agli apostoli. Da allora tutta la Chiesa vive protesa verso il momento di quell'incontro, continuamente celebra la morte del Signore, ne proclama la risurrezione, nell'attesa della sua venuta. Ed è questa attesa ad illuminare i passi del suo pellegrinaggio terreno, o meglio, a rendere il suo cammino non un vagabondare disorientato, ma un vero pellegrinaggio, con una meta ben precisa, e una meta di gloria e di luce.

"Certo verrà" - ci assicura la liturgia di oggi - "non tarderà". Il profeta Abacuc si fa voce di un popolo stremato dalla guerra. Non è certo forzato pensare alle immagini di violenza che ci perseguitano con insistenza da mesi, a fronte delle quali si è levata la voce di quel grande profeta del nostro tempo che è papa Francesco: situazioni di intollerabile fatica, fisica, morale, psicologica, ma anche spirituale, perché la preghiera sembra rimbalzare dal cielo senza giungere là dove deve per sortire il suo effetto. E viene spontaneo chiedersi: "E Dio dov'è?"... Ma al nostro grido accorato risponde quello ancora più accorato di Dio stesso: "Tu, uomo, dove sei?" (cf. Gen 3,9). Sì, perché Dio non è lontano dall'uomo, mai, è piuttosto l'uomo a smarrire tragicamente la via di Dio.

Di fatto, c'è un limite al male - e alla sofferenza che il male genera -, la visione del profeta "attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce". Ma sarà dato di contemplare nella verità il compimento della visione solo al "giusto", mentre "soccombe colui non ha l'animo retto". Il giusto è tale perché giustificato dalla fede in Cristo (cf. Gal 2,15), dunque è colui che vive di fede e vive proprio per la sua fede; il disonesto soccombe sotto l'infuriare delle forze avverse, perché non è sostenuto dalla fede, ma vive il qui ed ora senza saper alzare lo sguardo oltre l'evidenza del reale verso un orizzonte di luce, magari lontano ancora, ma certo. Certo perché il Signore non può mentire, e se ha detto che verrà, "certo verrà". Di più: è talmente certo che verrà che anche "se siamo infedeli, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso" (2Tim 2,13)!

Ma il dono di questa fede per chi è riservato? Forse per pochi eletti, come tanti laici lamentano di fronte alle persone consacrate nel sacerdozio o nella vita religiosa: "Beati voi, che avete fede..."? Certo, Paolo rivolgendosi a Timoteo si rivolge ad un apostolo, ma il Concilio ci insegna che "tutti sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio" (Lumen gentium 32). Dunque il dono è per tutti noi, perché tutti consacrati nel Battesimo come re, profeti e sacerdoti, tutti chiamati ad essere apostoli in forza della vocazione battesimale, ciascuno nel suo quotidiano. Tutti dunque depositari di un "dono", di un "bene prezioso" che ci è stato affidato. E il dono va non solo "custodito", ma anche "ravvivato". Come? Ogni virtù cresce nella misura in cui viene esercitata, così come i talenti della parabola evangelica danno frutto a chi li traffica (cf. Mt 25, 14ss.). Il dono della fede, assicurato a tutti i battezzati, si custodisce solo ravvivandolo, e si ravviva solo esercitandolo attraverso continui atti di fede. Lo Spirito Santo ci aiuta, ci assicura S. Paolo, ma a noi sta l‘andare oltre le nostre paure, per vivere con "forza, carità e prudenza". Anche qui si tratta dunque di andare oltre: non solo oltre il reale, vedendo ciò che ancora non si vede, ma anche oltre il nostro sentimento di fronte al reale, nella certezza che siamo dal Battesimo equipaggiati per fare il salto.

A questo punto sorge anche in noi spontanea la richiesta degli apostoli: "Accresci in noi la fede...". Se non ci aiuti tu, come facciamo? Come far crescere il germe di fede seminato in noi dal Battesimo? E Gesù, paziente, spiega che la fede non è una questione di quantità, di chi tra i battezzati ne ha di più e chi di meno, perché tutti siamo stati equipaggiati allo stesso modo, il dono è uguale per tutti e completo fin dall'inizio. Si diceva che il problema non sta nell'accrescerlo, ma nel custodire e ravvivare un dono che già c'è, e c'è in misura sovrabbondante, come sempre è la misura di Dio: se è vero che ne basta un granello di senape, quanto mai potrà essere il frutto della semina larga di quel seminatore tanto generoso da seminare perfino sulla strada e tra i sassi (cf. Mt 13,3ss.)?

Il problema è che non sappiamo attendere, che vogliamo le risposte qui e subito, che non proviamo ad alzare lo sguardo del cuore e della mente verso un oltre promesso con certezza, ma che va aspettato perché ci sarà dato al tempo giusto. Il padrone che al servo che ritorna dal campo chiede in ricompensa di servirlo anche a tavola, è quello stesso che un giorno si stringerà lui le vesti ai fianchi, farà sedere i servi a tavola e passerà a servirli (cf. Lc 12,37). Ma questo avverrà "nell'ora che non immaginate", quell'ora benedetta a cui anela tutta la Chiesa, l'ora in cui verrà il Figlio dell'uomo (cf. ivi 12,40).

Dunque nessuna ricompensa per l'oggi? Tutto sommato quel "servi inutili", letteralmente servi che lavorano senza un utile, ci lascia un po' di amaro in bocca. Di fatto altrove però Gesù assicura Pietro, anche lui come noi preoccupato per la ricompensa del suo servizio al regno, che "non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà" (Lc 18,29-30). C'è una ricompensa dunque, c'è anche per l'oggi, ed è "molto di più"... Che non sia semplicemente quella di avere il privilegio di servire un re grande come il nostro re? Si tratta anche di qui di saper vedere oltre: oltre le rivendicazioni sindacali del nostro io, oltre la nostra logica a volte così gretta, per capire chi è il destinatario ultimo delle nostre fatiche, e gioire nella consapevolezza grata che siamo stati chiamati a lavorare per un Re "servire il quale è regnare" (Lumen gentium 36)!

 

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