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TESTO Dal punto di vista di Dio

padre Gian Franco Scarpitta  

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XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (06/10/2013)

Vangelo: Lc 16,19-31 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,5-10

In quel tempo, 5gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

La fatica più grande del nostro credo forse non è quella di accettare le dottrine, ma di accogliere la fede come un fatto vitale. Tradurre in concretezza la nostra fede in esperienza è in effetti più difficile di quanto sembri, sia per le continue sfide a cui si è sottoposti, sia per il fatto stesso che il credo cristiano comporta una testimonianza radicale, una prassi di vita costante che va sostenuta ed esercitata nel male e nel bene. Nei momenti di difficoltà ci si ricorda spesso di elevare una preghiera a Dio, così come ci si dimentica di lodarlo e ringraziarlo nei benefici e nelle prosperità; si rende debito culto al Signore nelle celebrazioni liturgiche, lo si venera nelle confessioni sacramentali atte a mondare la nostra coscienza motivati a volte semplicemente da scrupoli e timori esteriori, ma molto spesso ci si dimentica di lui quando si tratti di rendere testimonianza nei rapporti col prossimo. Molte volte si riduce la religione a solo fatto di culto o manifestazione esteriore, senza considerare che è proprio nella quotidianità e nell'ordinarietà della vita che siamo chiamati a mettere in atto i contenuti del nostro credo.

Insomma, la fede è questione di vivere e non solamente di professare, richiede testimonianza coraggiosa, a volte eroismo disinteressato e chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato (1Gv 2, 6). Lo ribadisce anche Giacomo nella sua preziosa Lettera: la fede senza le opere è vana e inesistente (Gc 2, 26).

Con questa espressione così paradossale per noi, Gesù sottolinea che la fede non può limitarsi a mera condotta intellettuale o ad astrattismo e deve escludere ogni forma di esagerata esteriorità: "Se aveste fede quanto un granello di senapa potreste dire a questo monte..." Forse le risultanze della nostra fede non saranno davvero così miracolose, può darsi che non ci si debba aspettare risultati così eclatanti ed inimmaginabili quali lo spostamento di montagne o affini, ma certamente la fede, vissuta nella sua globalità esistenziale, adottata come prerogativa di vita da chi la professa e puntualmente messa in atto con le opere di carità, apporta senza dubbio i suoi benefici e le sue ricompense. L'apertura di cuore a Dio, l'accettazione disinvolta e libera della sua rivelazione e della sua volontà, l'affidamento alla sua Parola e la vita costante nel Signore sotto tutti gli aspetti e in tutti i settori, non passerà inosservata agli occhi di Dio, poiché il Signore non manca di ricompensare chi gli mostra apertura e fedeltà. Quando la fede si incarna nella nostra vita, quando diventa una caratteristica esistenziale che ci identifica fra tutti quanti gli altri, assume connotati di consolazione e consegue benefici certi seppure non mancano le lotte e le vessazioni.

Certamente non si può omettere di considerare la stridente prova insuperabile a cui si è asserviti nella circostanza di lutti improvvisi o di improvvise e immeritate sciagure e in questi casi le domande e gli interrogativi inquietanti del nostro credere sono inevitabili e spesso anche assillanti. Chi perde ad esempio senza preavviso il papà e la mamma o addirittura il figlio in tenera a causa di un malessere inaspettato resta certamente folgorato dall'esperire più la lontananza di Dio che la vicinanza. Essere raggiunti da ingiusti castighi quali malattie irreversibili che costringono alla sedia o al letto con possente sacrificio dei congiunti, essere vessati da avvilenti prove di lutto e di dolore mentre si mostra fedeltà assoluta a Dio comporta certamente smarrimento e sfiducia: "Che cos'ho fatto per meritare questo?" "Perché proprio a me e non ad altri?" "Perché il Signore prova solo i giusti e non i peccatori?". Circostanze come queste rendono comprensibile come sia difficile tante volte coniugare la fede con la vita e anche il Re Abacuc nella prima Lettura lamenta la pena del suo popolo costretto ai patimenti e allo sconforto a causa delle invasioni assirobabilonesi: "

"Fino a quando Signore?"; si domanda cioè fino a quando sarà costretto a vedere iniquità e contese tutt'intorno e per implicito anche fino a quando debbano subire immeritato castigo i giusti e i retti, e si assisterà al trionfo incontrastato dei malvagi e dei prepotenti, che continueranno a passare inosservati nelle loro malefatte. E' la rimostranza di qualsiasi uomo pio e retto costretto a subire castighi immeritati e i dileggiamenti dei malvagi ai quali nulla succede in negativo.

Ciò nondimeno, la rivelazione del Dio Amore che salva accettando la croce e facendo propria ogni esperienza umana di dolore, ci rassicura che le sofferenze e le pene dei giusto non sono inutili: esse contribuiscono a salvare se stessi e gli altri poiché concorrono alla passione stessa del Cristo.

Nella condivisione del nostro dolore con quello della croce di Gesù, ci rendiamo missionari insieme a lui nella stessa opera di redenzione e di salvezza e proprio la fede ci dischiude questa ricca prospettiva con cui vanno viste le sopportazioni di prove e di dolori. La fede ci invita ad interpretare ogni disgrazia come un'opportunità e anche il male irrimediabile della morte diventa in essa comprensibile e legittimabile alla luce del Risorto. Infatti, seppure ci rattristerà sempre (ed è giusto) lo sconforto della morte prematura di un giovane per improvviso malessere, l'apertura all'Assoluto ci ravviserà tuttavia che Dio proprio alle anime giuste concede il giusto premio, la gloria e la vita senza fine per cui ogni evento luttuoso diventa transito di gioia e di festa, quando visto nell'ottica della fede, che è del tutto differente dalle aspettative propriamente nostre.

Forse si dovrebbe avere la volontà di abbandonare il nostro punto di vista per assumere quello di Dio. Vedere insomma ogni cosa e ogni avvenimento con l'ottica trascendentale che esula dalla nostra per riscoprire che la fede può smuovere davvero le montagne, nel senso che è capace di traguardi insperati anche laddove questi si nascondono o non si palesano immediatamente.

Ma il preambolo della fede è l'umiltà. Attitudine di preambolo che ci rende servi inutili, per meritare davvero ogni cosa.

 

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