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TESTO Controcorrente

don Luciano Cantini  

XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (08/09/2013)

Vangelo: Lc 14,25-33 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 14,25-33

In quel tempo, 25una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.

28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

Non mi ama più di quanto ami suo padre

... quel "più" comparativo della nostra traduzione non rende ragione al testo greco di Luca ben più incisivo: usa la parola "odiare" che tende a proporre una forma semitica di abbandono. Non si tratta di comparare due amori - magari nella quantità o nella qualità - quanto piuttosto di abbandonare gli altri amori per Cristo. Non abbandonare i propri genitori, la propria famiglia al proprio destino per percorrere altre strade quanto superare quei legami rappresentati dalla famiglia per un amore ed una dedizione universale come quella di Cristo. Non a caso Gesù chiede a chi vuole seguirlo di odiare- abbandonare la sua stessa vita. Il senso di appartenenza al una famiglia, una tribù, un popolo (una lobby, o un partito, o semplicemente a una tifoseria) affatica il pensiero e il cuore, non permette di vedere oltre, di entrare in relazione vera con lo straniero, il diverso, l'altro da me. L'esigenza della Fede è l'universalità della dedizione (E. Balducci)

L'universalità (la cattolicità) ci è negata dai legami di sangue che non ci aiutano a liberarci totalmente dal peso della nostra origine. Gesù ci chiede la libertà che deriva dalla rottura di tutti i nostri vincoli; come nell'Antico Testamento: L'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie... (Gen 2,24); Il Signore disse ad Abram: Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre... (Gen 12,1).

Colui che non porta la propria croce

Il nuovo modo cattolico (universale) di amare, capace di superare tutti i confini compreso quello che identifica gli avversari e i nemici (Lc 6,27.35), significa andare consapevolmente controcorrente e viverne le conseguenze come l'indifferenza, l'isolamento, la calunnia. Sappiamo bene che in certi parti del mondo significa anche violenza, tortura, uccisione. Il discepolo deve essere pronto, come Gesù, ad affrontare il rifiuto della società, sicura di se stessa e delle proprie scelte. Seguire Gesù significa portare la croce della fedeltà e della coerenza agli ideali di giustizia, fraternità, accoglienza, pace, ben sapendo di andare incontro all'insuccesso agli occhi degli uomini.

Non è possibile capire il modo nuovo di amare del Cristo se lo isoliamo dal mistero della Croce, di morte e resurrezione. Ognuno ha la sua croce, perché ognuno ha la sua vita, le relazioni e gli affetti, le vicende e i sentimenti. Ognuno ha la sua storia ma in ogni storia si rende presente l'amore pasquale di Gesù. Ogni storia si allarga per comprendere le situazioni di sofferenza, dalla nostra a quella dei nostri familiari e amici, per arrivare ai popoli martoriati dalla guerra, dalla povertà, dallo sfruttamento che ci chiedono vicinanza, premura, sostegno, accoglienza.

Portare la croce significa anche portare la sofferenza ed aiutare a portarla nel modo più umano possibile.

Volendo costruire una torre

Sembrano fuori luogo le parabole che Gesù racconta come esempio, basate sul calcolo e sulla potenza (la torre e la vittoria) tutte umane, appartenenti alle categorie del mondo e del successo. La Fede non è una virtù celeste, perché appartiene al mondo e alla storia con i suoi ritmi, le sue prospettive, i suoi strumenti. Vivere la Fede significa fare i conti con le realtà del mondo e le sue contraddizioni, sapendo però che quelle prospettive e quei mezzi non possono appartenere ai discepoli di Cristo. Altre sono le strade che i cristiani devono battere, altri i metodi e le soluzioni da incarnare nella stessa storia e nello stesso mondo. Da qui l'invito a sedersi (prendersi il tempo necessario) per "esaminare e calcolare", per mettere nella prospettiva la derisione e la sconfitta, e trovare, in fine, le vie della pacificazione. Non è un esame e un calcolo semplice, anzi piuttosto impegnativo perché chiede la separazione da tutti i propri averi, l'abbandono totale e la fiducia in quel Gesù che vogliamo seguire.

 

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