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TESTO Commento su Luca 12,13-21

Omelie.org - autori vari  

XVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (04/08/2013)

Vangelo: Lc 12,13-21 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 13uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».

16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. 20Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di Padre Gianmarco Paris

Ci sono cose di cui si parla poco nella Chiesa, e che toccano la vita di tutti noi, lasciando segni belli e anche ferite. Una di queste "cose" passa in mezzo alla Parola di Dio della liturgia di oggi: è l'esperienza del lavoro umano e dei suoi "frutti": quale relazione c'è tra il lavoro, i suoi frutti e la felicità che l'uomo cerca? Se i frutti attesi dal lavoro sono le ricchezze materiali, esse ci portano la felicità? A quali condizioni?

Prima di continuare a leggere la riflessione che segue, è importante leggere e meditare con calma le letture e il salmo: molte delle cose che andiamo chiedendo ad altri, la Parola ce le comunica in modo semplice, se le diamo tempo, cuore, intelligenza. Solo dopo (e se ne abbiamo ancora bisogno) si può leggere le note che seguono, per metterle in dialogo con la Parola e quello che ci ha detto.

C'è un fatto contro cui nessuno può resistere: l'opera delle nostre mani, anche la più bella e grande, a un certo punto ci sfugge, dobbiamo lasciarla. Al tempo stesso c'è un desiderio che mai smette di pulsare nel cuore di ognuno: quello della felicità, della pienezza. Queste due cose accomunano tutti gli uomini, da un estremo all'altro della terra, dal vertice al fondo della scala sociale.

L'uomo, confrontandosi da una parte con il suo desiderio e dall'altro con l'esperienza della fine, cerca una via di uscita: raccogliere il più possibile, per avere tanto ora ed essere felice prima che tutto finisca. In questo modo cerca forse di convincersi che la quantità delle cose anestetizzi l'evidenza che a un certo punto le lasceremo, tutte!

C'è nella Bibbia un libretto di poche pagine, scritto da uno che pensava queste cose, da una parte guardando in faccia la realtà come è, dall'altra stando saldamente radicato nella fede in Dio: questo gli ha concesso una fede realistica, e uno sguardo sulla realtà pieno di dolcezza (è un peccato che questi libri della Bibbia siano poco letti in Chiesa, pur essendo Parola di Dio!). Questo amico si chiama in ebraico Qohelet (letteralmente: colui che riunisce l'assemblea). Nella prima lettura osserva un fatto che anche noi molte volte abbiamo riscontrato: uno lavora una vita intera, si ammazza per ottenere qualcosa di bello, e poi deve lasciare tutto ad altri, che non ne hanno gioito né sofferto. - È giusto questo? A che serve? - si chiede Qohelet. E conclude: questa cosa non è bella, ma non ci possiamo fare niente. È un mistero che ci supera: è come vento che non riesci ad acchiappare, come fumo che non ti lascia vedere le cose nitidamente (non si ferma qui: va oltre, lo si può vedere leggendo il libretto per intero, non prende più di mezz'ora).

Gli fa eco, su un'altra modulazione, l'autore del salmo 94: agli occhi di Dio la vita dell'uomo è ben poca cosa; e se ci sforziamo, anche noi possiamo capire che gli anni che viviamo non sono nulla paragonati con il tempo del mondo. Pur essendo come un filo d'erba, l'uomo desidera l'infinito, la felicità. La strada da percorrere è chiedere a Dio la "sapienza del cuore", la capacità di guardare con i suoi occhi, per penetrare il fumo che nasconde tutto. Per questo uomo di fede, ciò che sazia la nostra sete di pienezza è la grazia, la divina dolcezza: questa sola è capace di rendere salda l'opera delle nostre mani, cioè di dare quella felicità che cerchiamo.

Passando per le riflessioni esistenziali della prima lettura e le altezze liriche del salmo arriviamo al Vangelo, dove Gesù continua il suo viaggio verso Gerusalemme, e lungo il cammino incontra varie persone, affronta e dice la sua su varie questioni di vita. Oggi è coinvolto suo malgrado in una discussione di fratelli circa i problemi dell'eredità. Già questo basterebbe per farci sentire dentro questa pagina di vangelo, perché questioni come queste non sembrano passare mai. Ma la nostra curiosità (come Gesù risolve la questione che mi da tante preoccupazioni?) rimane frustrata, perché subito Gesù rinvia al mittente la richiesta di fare da mediatore: non si intromette, perché non è questa la sua missione. Ma la situazione gli offre l'opportunità per dire insegnare qualcosa che ha sì a che fare con la sua missione: avverte tutti con forza che la vita dell'uomo (non la vita fisica, ma la sua felicità) non dipende dall'avere sempre di più (che è il frutto della cupidigia, che è il desiderio di possedere senza limite). Ci viene subito da chiedere; da cosa dipende allora? E Gesù risponde: dall'arricchire davanti a Dio, che possiamo intendere così: dal realizzare sempre di più la nostra somiglianza con Dio, che è pienezza, ricchezza, armonia.

Tra l'inizio e la fine del suo insegnamento Gesù racconta la parabola dell'uomo ricco, che è anche avaro ed egoista (notiamo quante volte ricorre il pronome e l'aggettivo di prima persona, e singolare!). Con questa parabola Gesù intende mettere allo scoperto l'inganno, la trappola che la cupidigia prepara all'uomo in cerca della sua felicità: la possibilità di accumulare sempre di più per se stesso gli fa credere, falsamente, che sarà felice, potrà godersela per sempre, non avrà più grattacapi. Come nella parabola Dio chiede la vita a quest'uomo molto prima del previsto, così nella vita molto prima del previsto la felicità costruita sul possedere solo per sé va in frantumi, non sopporta il peso della vita. La pienezza di vita non è questione di possedere molto né di vivere per molto tempo. Allora? Gesù conclude che il cammino della pienezza, contro la prospettiva di "accumulare per sé", è quello di "diventare ricchi in rapporto a Dio". La prima espressione è chiarita dall'esempio (negativo) dell'uomo della parabola; la seconda è più misteriosa, ma è necessario capirla se vogliamo comprendere e vivere l'insegnamento di Gesù. Lo possiamo fare leggendo tutto il vangelo, in particolare quello di Luca. Una cosa però è chiara: il rapporto con le cose, con i beni (e il desiderio umano di averne sempre di più) è uno dei campi più concreti dove possiamo vedere davvero chi siamo, e chi è Dio per noi; e per questo, è una delle verifiche più semplici della fede. Arricchire in rapporto a Dio significa centrarsi sui beni non solo materiali ma anche spirituali, umani in senso lato, e per questo usare i beni materiali per costruire umanità, giustizia, uguaglianza.

La seconda lettura, di Paolo ai Colossesi, commenta teologicamente questo passaggio pasquale che l'uomo di fede è chiamato a fare continuamente: per un verso siamo già morti con Cristo e risorti con Lui. Dall'altro, spetta a noi vivere in modo corrispondente a questo passaggio avvenuto, facendo morire ciò che appartiene alla terra e desiderando le "cose di lassù". Tra le cose della terra Paolo cita il desiderio umano che non accetta la misura, e che nel rapporto con i beni si chiama appunto cupidigia, avarizia. Ad esso si contrappone la capacità, come dice Gesù, di diventare ricchi in rapporto a Dio: questo cammino comincia con il battesimo, che ci fa entrare nella Pasqua di Cristo, e continua per tutta la vita.

È proprio vero che questi valori dell'uomo risorto, che con la ragione e una certa fede vediamo e accogliamo come giusti, sono poi sempre da verificare in noi, perché con il passare del tempo soffriamo una certa istintiva attrazione verso il modo di essere di prima, quello dell'uomo vecchio, indipendentemente dalla nostra situazione economica (è una tentazione che prende anche e soprattutto i più poveri) o dalla scelta di vita (non basta professare di vivere radicalmente il battesimo, per essere vaccinati da queste tendenze).

Facciamo nostra la preghiera del salmo: donaci la sapienza del cuore, che cresce quando impariamo a contare i nostri giorni, a dare il giusto valore alle cose, e al tempo che abbiamo. Allora potremo desiderare di più la grazia e la dolcezza, che molti tesori di oro e argento. Allora assaporeremo la felicità dei poveri di spirito, che confidano nel Signore non perché non hanno altra possibilità, ma perché Egli dà senso ad ogni altro valore.

 

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