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don Alberto Brignoli  

XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (30/06/2013)

Vangelo: Lc 9,51-62 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 9,51-62

51Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme 52e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. 53Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. 54Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». 55Si voltò e li rimproverò. 56E si misero in cammino verso un altro villaggio.

57Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». 58E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». 59A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». 60Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». 61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».

Il modo migliore per comprendere questo composito brano di Vangelo è di collocarlo nel contesto del capitolo 9 di Luca, di cui domenica scorsa abbiamo letto una parte. In essa, Gesù mostrava che la meta del suo cammino verso Gerusalemme coincideva con il cammino stesso, ovvero con la croce quotidiana, accettata dal discepolo come condizione per la sequela, insieme al rinnegamento di se stessi; nel brano di questa domenica, il cammino di Gesù verso Gerusalemme diviene deciso e senza tentennamenti, ma non per questo non si incontra con la dimensione della croce e della difficoltà, che gli viene da una serie di opposizioni, di obiezioni al suo annuncio (i samaritani che lo rifiutano e i soggetti che lo avvicinano per seguirlo obiettando condizioni poco favorevoli alla sequela). In mezzo, l'episodio chiave del Vangelo di Luca: la Trasfigurazione, che segna il passaggio da una sequela di Gesù fatta di fascino vago ed entusiastico nei confronti del Maestro a una fase del cammino evidentemente impregnata di croce e di resurrezione; cammino per intraprendere il quale occorre necessariamente molta fede, che spesso né le folle né i discepoli dimostrano di avere.

I dodici, infatti, cadono nell'ingenuità di pensare che il piano di Dio si debba realizzare con una decisione e una caparbietà che non guardino in faccia a nessuno, men che meno a samaritani da sempre refrattari verso la Parola di Dio e i suoi profeti; per contro, coloro che desiderano unirsi al cammino di Cristo spesso non sanno ciò che chiedono, lo fanno solo sull'onda dell'entusiasmo, al punto che Gesù deve mettere dei "paletti" e chiarire bene cosa significhi seguirlo verso Gerusalemme. In fondo, come già domenica scorsa, il messaggio che passa è uno: chi conduce il cammino, chi detta il passo, chi fa arrivare alla meta è il Maestro, e non ci sono "ma" o "se" che tengano. Perciò, non si può pensare, lungo il cammino, di adottare criteri personali volti a eliminare le situazioni di difficoltà e di opposizione che si presentino, nelle quali invece è bene "restare", perché non sono certo i "fuochi consumatori dal cielo" che mettono a posto in maniera sbrigativa le cose. Ma neppure si può pensare di accettare di intraprendere il cammino ponendo delle condizioni alla guida. Se qualcuno è esperto o appassionato di montagna, sa bene che in una cordata o in un'arrampicata è assolutamente necessario seguire le indicazioni della guida, pena la conclusione tragica dell'escursione, o quantomeno lo smarrimento della traccia. E nel nostro caso, la Guida ha ben chiaro almeno tre punti fermi del cammino; la precarietà, la libertà e la fiducia.

Intraprendere un cammino con uno zaino sulle spalle pieno di ogni cosa per evitare di sentire il disagio della mancanza, dell'assenza di qualcosa, non favorisce l'andare, ma contribuisce a creare pesantezza. Portarsi con sé la certezza e la sicurezza di una casa, di una famiglia, di affetti, di "tane e nidi" in cui rifugiarsi, di "luoghi dove posare il capo" per tutelarsi dai molti attacchi che ci rendono vulnerabili e indifesi non possono certo far parte del bagaglio del discepolo pellegrino. Vivere la precarietà, uscire dal palazzo per vivere di tenda in tenda e di strada in strada ci rendono più deboli ma ci fanno senz'altro più Chiesa.

E ci fa più Chiesa anche la libertà del distacco dalle cose, non solo quelle materiali, ma anche quelle che ad ogni costo vorremmo sistemare in vista del nostro andare. Ogni volta che ci è richiesto un cambio, uno spostamento, una nuova missione, abbiamo sempre la preoccupazione di mettere a posto tutto ciò che ci è possibile, per fare in modo che ciò che si conclude rimanga definitivamente sepolto con noi. Questo non ci rende più liberi, ma schiavi: schiavi di un passato che sa di morte, anche se spesso porta con sé il piacere della soddisfazione per le cose fatte. "Lascia che i morti seppelliscano i loro morti": lascia che ciò che è concluso sia sepolto, da chi viene dopo di te, da chi rimane e deve elaborare il lutto e la difficoltà del cambiamento. Tu hai già l'affanno e la pena dell'annuncio, che non si può fermare; meglio, comunque, affannati ed anime in pena che schiavi delle cose belle e passate, che danno solo un'apparente senso di sicurezza.

Ma è quell'aratro a cui abbiamo posto mano e brandendo il quale non possiamo più girarci indietro che ci dà la misura della sequela. Sì, perché tutti quanto vorremmo avere la certezza di raccogliere i frutti di ciò che stiamo seminando, e per giunta lo facciamo ancora prima della semina. Abbiamo la pretesa di volerci girare a guardare ciò che sta avvenendo alle nostre spalle mentre dobbiamo guardare diritto avanti perché i solchi che tracciamo siano fatti bene, a regola, pronti per essere utilizzati dal seme sparso. Un seme che nemmeno gettiamo noi, e del quale sicuramente non ci è dato vedere i frutti. Come possiamo essere certi che qualcuno ci segua se non ci giriamo indietro a guardare cosa sta avvenendo? Come possiamo essere certi che quello che stiamo facendo vada bene? E chi ci assicura che il seme gettato da altri nei nostri solchi sia seme buono?

Classiche preoccupazioni di gente senza fede, che basa ogni attività, e quindi anche l'efficacia dell'annuncio, solo sulle proprie forze e sulle proprie capacità. "Non ti curare, tu, di ciò che avviene alle tue spalle", sembra dirci il Maestro. "Tu vai avanti e fidati: al momento giusto, l'aratro deve girare per fare il solco nel senso contrario, e allora potrai vedere il risultato di ciò che tu hai fatto, ma non potrai certo raccoglierne i frutti, che sono per altri. Cosi come tu hai raccolto frutti che non erano tuoi".

Occorre fiducia, tanta fiducia. Non ci stiamo, a condizioni di questo tipo? Il giudizio è laconico: non siamo adatti per il Regno di Dio.

 

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