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TESTO Al di là del dovere

don Fulvio Bertellini

XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (15/09/2002)

Vangelo: Mt 18,21-35 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 21Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Quella che Gesù chiede ai discepoli è di vivere la fraternità. Non una fraternità solo teorica, ma concreta, che si manifesta con i fatti. Non una fraternità solo esteriore, ma profonda, che vive di atteggiamenti del cuore. Domenica scorsa si trattava di sentirsi responsabili del fratello che sbaglia. Questa domenica invece si tratta di perdonare.

E' significativo che l'evangelista unisca questi discorsi in un'unica sezione, ed è una domanda di Pietro a effettuare il collegamento. Pietro si mostra ancora una volta intuitivo, generoso, baldanzosamente arrogante: disposto a perdonare fino a "sette volte".

Una cifra simbolica: il numero della perfezione. Ma Gesù rincara la dose: fino a "settanta volte sette". Una cifra iperbolica. Oltre la perfezione.

Sette volte non basta

C'è qualcosa che non va nell'atteggiamento di Pietro. Che è poi un fraintendimento ricorrente nei nostri discorsi, e è anche in televisione e sui giornali. Anche se non può essere diversamente. Il perdono è inteso come una specie di comandamento, un dovere da mettere in pratica, almeno per i cristiani. Così lo intende Pietro: "Quante volte dovrò perdonare...?"; così lo intendiamo noi, ogni volta che ci chiediamo, di fronte a un crimine efferato: "Ma dobbiamo perdonare pure questo?".

Così ci si mette in una prospettiva sbagliata, in cui siamo noi al centro. Noi subiamo il torto, ma Dio chissà perché ci obbliga a perdonare sempre, comunque e a chiunque. E se lo facciamo, siamo bravi. Non è semplice uscire dal circolo vizioso dei nostri pensieri, che ruotano sempre intorno a noi stessi. Gesù tenta di aiutarci con una parabola.

Il debito insaziabile

Notiamo innanzitutto che il protagonista della parabola è un re, dietro cui si intravede l'agire di Dio. Dunque il perdono, prima di essere affar nostro, è una prerogativa di Dio. Notiamo poi che si parla di un debito. Come già diciamo nel Padre Nostro: "Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Il pensiero ricorre più volte, anche al di fuori del Vangelo. Bisogna perdonare, per essere perdonati da Dio. Sembrerebbe un rapporto di dare-avere: perdona, e sarai perdonato. Ma la proporzione esatta tra il dare e l'avere è proprio ciò che Gesù vuole evitare di trasmettere. Per cui nella parabola saltano all'occhio gli elementi di sproporzione. Innanzitutto, l'entità del debito. Diecimila talenti è una somma enorme, al di là delle possibilità di qualunque singola persona: il re Erode in persona, ad esempio, guadagnava meno di mille talenti in un anno. I cento denari invece sono una somma relativamente esigua.

La decisione imprevedibile

Ma troviamo un secondo elemento di squilibrio, ed è la reazione del padrone. Di fronte alle suppliche, condona interamente il debito. Si tratta di un fatto inaudito. Nessun re umano farebbe altrettanto. Si tratta di una riabilitazione integrale del servo. Tuttavia, questa decisione viene rinnegata poco dopo. Quando il servo si dimostra incapace di perdonare a sua volta, viene consegnato agli aguzzini. Ambedue le decisioni sono sorprendenti: la prima ci appare un eccesso di bontà; la seconda potrebbe sembrare troppo punitiva. Non stava scritto in nessun contratto che doveva condonare i debiti anche agli altri servi...

Una non-legge non scritta

Ed è proprio questo il punto: il perdono non è una legge scritta, un contratto con clausole determinate e precise, del tipo: perdona agli altri, perché Dio perdoni te. Il perdono è innanzitutto un dono di Dio, sproporzionato e imprevedibile. Che ci abbraccia e coinvolge tutti. Il nostro perdono è sempre solo una risposta, un tentativo di imitazione, un derivato. Viviamo del perdono di Dio: non possiamo fare a meno di perdonare i fratelli. E non sappiamo come ci si presenterà davanti il fratello da perdonare. Ma al novanta per cento dei casi, non sarà un omicida, un assassino, uno che ci ha fatto del gran male. Sarà un amico che ci ha criticato. Sarà un familiare che si mette contro di noi. Sarà qualcuno che ha spettegolato di noi. Sarà qualcuno che credevamo di non poter perdonare. E invece Dio stesso ci prenderà per mano, e ci farà scoprire la gioia di partecipare al suo perdono.


PRIMA LETTURA

Il libro del Siracide è una raccolta sapienziale tardiva, che riprende i temi tradizionali, raccogliendoli in forma più sistematica e organizzata. Ad esempio, i detti che formano la nostra lettura ruotano tutti attorno al tema della vendetta e del perdono. Il rancore e l'ira sono un abominio... Il termine abominio nell'Antico Testamento esprime il peccato al massimo grado, in quanto è detestato da Dio e avvelena la vita dell'uomo. Generalmente è applicato all'idolatria, all'adorazione di altri dei o le varie forme di culto degli idoli. Nei testi profetici notiamo che l'idolatria contamina il popolo, e si estende alla terra di Israele: tutta la vita del popolo ne risulta inquinata ed esposta al fallimento. Al tempo del Siracide la problematica dell'idolatria è ampiamente superata per Israele: il termine è allora applicato ad una forma indiretta di idolatria. Colui che si lascia dominare dallo spirito di vendetta, in un certo senso si mette al di fuori della signoria di Dio, si lascia dominare da qualcosa d'altro (il proprio risentimento e il proprio rancore) e non rende più gloria a Dio.


SECONDA LETTURA

Paolo nel capitolo 14 esorta la comunità ad accogliere e rispettare tutti i fratelli, e i loro modi differenti di rendere gloria a Dio con la loro vita. Paolo conclude l'argomentazione con una affermazione di carattere generale, che riguarda il vivere e il morire: se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore. La nostra vita è vissuta in riferimento a Dio; e perfino il momento della morte sta sotto la sua ombra protettiva, come giorno di giudizio e perdono. Il testo diventa così un invito a guardare prima di tutto a se stessi, e ad assumersi la propria responsabilità.

 

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