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TESTO Dai, alzati!

don Alberto Brignoli  

X Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (09/06/2013)

Vangelo: Lc 7,11-17 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 7,11-17

In quel tempo, 11Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. 12Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. 13Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». 14Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». 15Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. 16Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». 17Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

"Cosa ho fatto di male perché mi succedesse questa disgrazia? Che cosa ho fatto perché Dio mi castigasse in questo modo?". Credo che a ognuno di noi sia capitato, in diversi modi e in differenti momenti della vita, di sentirsi rivolgere queste domande, che risuonano come il sibilo di una sciabola nell'aria, dalla quale cerchiamo di ripararci per evitare - pure noi - di essere feriti.

A noi preti - e non è certo un merito, anzi, spesso è un peso che eviteremmo volentieri - questo capita più spesso che ad altri, perché siamo chiamati a compiere un gesto di umana solidarietà o a portare una parola di consolazione e di cristiano conforto a gente colpita da sventure pesantissime, come quelle della perdita di un figlio. A noi, queste domande sono giustamente rivolte con maggior enfasi, a volte anche con maggior rabbia, perché siamo ritenuti "gli uomini di Dio", i suoi rappresentanti, e allora dobbiamo parlare in nome di lui e in nome della sua "ira", della sua "collera", alla quale siamo moralmente obbligati a dare una spiegazione. E anche ad accettare il rifiuto da parte di chi è devastato dal dolore.

"Che cosa c'è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?": la monumentale grandezza di Elia, l' "uomo di Dio" per eccellenza di tutto l'Antico Testamento, viene minata e rischia di crollare sotto i colpi dell'angosciante grido di disperazione della vedova di Sarepta di Sidone, la quale, in risposta alla sua generosità nei confronti del profeta in un momento di grave carestia, riceve sì farina nella giara e olio nell'orcio in maniera inesauribile, ma ottiene pure la morte del suo unigenito. E così, la "colpa" di essere rimasta vedova (tale era la mentalità dettata dalla teologia "retributiva" dell'antico Israele) si completa con la "colpa" della totale solitudine.

Il grido delle madri di ogni figlio ingiustamente ucciso o morto prematuramente sale da sempre a Dio, passando per gli orecchi degli uomini di Dio; i quali, purtroppo, il più delle volte non riescono a dare risposte adeguate. Come il Dio di Elia che - in questo brano che abbiamo letto - non osa dire una sola parola. Anche il Dio del Golgota non dirà una sola parola alla Madre del suo Figlio ucciso. Eppure, il suo silenzio parla, e poi risponde; risponde come sappiamo, con quel giardino al cui interno, il mattino del primo giorno dopo il sabato, la tomba nuova dove ancora nessuno era stato posto viene trovata inspiegabilmente vuota.

A noi, uomini di Dio, oggi è chiesto un grande ministero, anzi due, attuali più che mai: il ministero della consolazione e quello della speranza. Forse più quello della speranza, che quello della consolazione. Sì, perché consolare la madre o il padre di un figlio perduto definitivamente è un ministero grande, importante, necessario, ma purtroppo il più delle volte è un ministero sterile, perché ci svuota, ci logora, ci rende incapaci di dare consolazione perché troppo grande è il dolore. Troppo drammatiche sono le urla di angoscia di chi perde un figlio; troppo strazianti sono le vicende di figli morti a causa dei loro stessi genitori, una causa spesso involontaria, causata a sua volta da una vita la cui frenesia è divenuta talmente automatica da non lasciare neppure più il tempo di ricordare dove sono le persone amate. E troppo vacue e fatue sono le parole circostanziali che - con freddo e calcolato senso della funzione - osiamo biascicare di fronte a questi drammi piuttosto che scegliere la via del silenzio. Il nostro senso di sconfitta e d'impotenza è talmente grande che pure un semplice "Non piangere" può risultare dannoso.

Ma c'è un altro ministero, quello della speranza, che ha ancora senso d'esistere, perché interviene là dove i figli sembrano perduti, ma in realtà sono solamente nascosti, dove sembrano uccisi, ma in realtà sono solamente schiacciati, dove sembrano morti, ma in realtà sono solamente addormentati. Addormentati a causa di un'esistenza che li ha resi assonnati, drogandoli a piccole dosi con le stupefacenti promesse di soldi facili, di divertimento esagerato, di un piacere infinito capace di far dimenticare la durezza del vivere; schiacciati sotto il peso di un'esistenza difficile da portare sulle spalle pur essendo palestrati e fisicamente efficienti, a causa di un passato di studi sprecato inutilmente per via di un presente che non offre sbocchi e in vista di un futuro che non esiste ancora e in molti casi non esisterà mai; nascosti da una società che, pur di vivere e far viver di immagine e di sensuale apparenza, elimina dalla vista altrui chi bello non è, chi efficiente non potrà mai esserlo, e chi non se la sente di fare il furbo e il disonesto, anche se sappiamo bene che è un mestiere che rende.

Alle madri e ai padri di questi figli apparentemente perduti, si rivolge il nostro ministero della speranza. A loro, il Signore oggi ci invia, per dire: "Non piangere...Dammi tuo figlio". A loro il Signore ci invia perché facciamo tutto, ma veramente tutto il possibile, perché questi ragazzi si rialzino dall'ombra della morte. A loro, il Signore ci chiede di avvicinarci e di profondere tutte le nostre energie in loro favore, invocando Dio perché "la vita di questi figli torni nei loro corpi".

Un figlio morto, così come i suoi genitori, è da affidare per sempre alle braccia della misericordia di Dio, senza grandi parole; ma un figlio perduto è da affidare alla forza della speranza che è in noi, perché se crediamo - come la folla - che "Dio ha visitato il suo popolo", allora crediamo davvero che è ancora possibile prendere per mano ogni ragazzo, ogni giovane disteso e prostrato sotto i colpi della vita per dirgli: "Alzati!". E restituirlo a una madre e a un padre che abbiano ancora tanta fiducia nella vita.

 

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