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TESTO Gesù al femminile

don Cristiano Mauri  

VI domenica T. Pasqua (Anno C) (05/05/2013)

Vangelo: Gv 16,12-22 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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12Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. 14Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. 15Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.

16Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete». 17Allora alcuni dei suoi discepoli dissero tra loro: «Che cos’è questo che ci dice: “Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete”, e: “Io me ne vado al Padre”?». 18Dicevano perciò: «Che cos’è questo “un poco”, di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire».

19Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: «State indagando tra voi perché ho detto: “Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete”? 20In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia.

21La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. 22Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia.

L'impegno, che sconfina a volte nella preoccupazione, di dare all'altro esattamente ciò di cui ha bisogno, con l'attenzione che il troppo non gli faccia male o che il poco lo lasci deluso. La capacità di ascoltare e capire il desiderio di chi si ha accanto in tutte le sue valenze, tanto quelle evidenti quanto quelle a lui stesso nascoste, per comprenderne la natura e assecondarla qualora fosse buona. La disposizione a interpretare quale sia la giusta misura del prossimo passo in cui accompagnare colui che si ama, perché il cammino procede ma l'affanno non renda una pena. «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso» (Gv 16, 12)

Quell'intuito che sa raggiungere e conoscere l'animo altrui oltre le capacità della ragione e che riesce a concentrarsi su dettagli e particolari che gli occhi non sanno mettere a fuoco. Un sapere "di pancia" che penetra lo schermo delle parole e la mediazione del volto per raggiungere una profondità altrimenti inattingibile. Una capacità di lettura comprensiva che distingue le sfumature senza perder di vista l'insieme e che si dilata nella pazienza dell' "et-et" più che nella pretesa dell' "aut-aut". «Gesù capì che volevano interrogarlo...» (Gv 16, 19) «Darai la tua vita per me, Pietro? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo prima che tu non mi abbia rinnegato tre volte» (Gv 13, 38)

L'attitudine ad incoraggiare, consolare e coccolare che traduce la radicata volontà di pace e serenità per l'esistenza di chi si ama; che perciò privilegia i toni della delicatezza e della dolcezza a quelli della forza e della durezza. Non come un ottimismo a buon mercato ma come una continua opera di preparazione, perché ogni cosa sia disposta adeguatamente in tempo opportuno a beneficio dell'altro, che possa affrontare così ogni cosa con tranquillità e agio.

«Non si turbato il vostro cuore...» (Gv 14, 1) «Vi lascio la pace... Non si turbato il vostro cuore...» (Gv 14, 27) «Verrà il Consolatore che io vi manderò...» (Gv 15, 26)

Uno stile di relazione che ha la forma di un "parto", un mettere al mondo l'altro dandogli vita e introducendolo alla vita. Mantenendo il legame ma invitando all'autonomia. Lasciando andare ma non abbandonando. Un modo di amare che tiene senza trattenere e continuamente ripete e si ripete la necessità della libertà, senza trasformarla in negazione del vincolo. Un disporre di sé come di uno spazio aperto alla presenza dell'altro, come una "mancanza" che chiede di essere colmata, una dimora che aspetta di essere abitata.

«Vi ho dato infatti l'esempio perché come ho fatto io facciate anche voi...» (Gv 13, 15) «Non vi lascerò orfani...» (Gv 14, 18) «E' bene per voi che io me ne vada...» (Gv 17, 7) «Rimanete in me e io in voi...» (Gv 15, 4)

Un vincolo di relazione dal carattere intimo e viscerale. Carne della stessa carne, sangue dello stesso sangue. Quel legame che parla di vite inscindibilmente legate, al di là di tutte le distanze, di ogni incomprensione, di qualsiasi tradimento e che comporta il compatire profondo, il sentire ciò che l'altro sente come se fosse mio e desiderare che l'altro provi quel che io vivo come fosse suo. Quell'appartenersi per cui perdere l'altro è morire insieme a lui. Un'intensità che contiene un principio di leggerezza e di freschezza che è un annuncio di libertà col suo rifiutare i toni dell'imposizione e dell'affermazione di sé, privilegiando quelli dell'attesa e dell'ospitalità.

«Io sono la vera vite e voi i tralci...» (Gv 15, 1), «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi...» (Gv 15, 11)

Un Gesù con una sensibilità e un modo di amare incredibilmente femminili e palesemente materni. Ce lo consegna così il lungo discorso che Giovanni mette sulle Sue labbra durante l'Ultima Cena. Se è vero che la carne di Gesù rivela il volto di Dio, qui se ne contempla Uno che avrà certo il volto di Padre ma ha indiscutibilmente il cuore di una Madre e un animo dal tratto marcatamente femminile. Mentre Lo ascolto, Lo leggo e Lo contemplo, sento quanto fortemente ne ho bisogno, insieme a questo tempo e a questa Chiesa. Quanto cerco questa femminilità, questa sororità, questa maternità. Mi domando, allo stesso tempo, quanto sarebbe diversa la mia Chiesa se non ponesse l'accento così spesso sulla forza di un Dio quasi esclusivamente maschile, nel quale anche gli elementi di misericordia e tenerezza sono spesso raccontati come espressione di una potenza. Me lo chiedo perché questo tempo così sfilacciato, frammentato, confuso e dolente se è vero che domanda punti di riferimento, è altrettanto vero che li attende più come un'istanza di accoglienza e comprensione che come pretesa di definizione.

Come vorrei riconoscere e imparare a raccontare questo Dio presente nella nostra vita come un principio di ospitalità e di accoglienza, come un spazio che si apre per la mia libertà e a sostegno della mia vita, come uno sguardo che coglie le sfumature di me e delle situazioni che vivo sapendole rispettare e custodire. Come mi piacerebbe saper gustare tutta l'ampiezza e la ricchezza del femminile di Dio. Ma mi rendo conto che questo racconto della maternità e femminilità di Dio non può che farlo una donna.

Vorrei che sapessimo allora lasciare loro di raccontarci il cuore di Dio così come Lo sanno, vincendo quella tentazione tutta maschile di dare dignità e spazio al femminile - anche nella Chiesa - solo a patto che assuma i tratti dell'uomo e sappia riproporne le caratteristiche.

Perché il rischio è quello di continuare ad annunciare Dio. Ma solo per metà.

 

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