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TESTO Le mie pecore ascoltano la mia voce

mons. Gianfranco Poma

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IV Domenica di Pasqua (Anno C) (21/04/2013)

Vangelo: Gv 10,27-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

La Liturgia della domenica IV di Pasqua ci fa leggere un brano del Vangelo di Giovanni (10, 27-30), piccolo ma intenso: continuiamo così a vivere l'esperienza pasquale e a comprendere il senso dell'esperienza cristiana come incontro personale con Cristo risorto nel quale inizia una relazione nuova, filiale, con Dio, che fonda la relazione fraterna tra gli uomini, diventati amici. L'incontro personale con Cristo vivo, genera la comunità dei discepoli che, amati da Lui rispondono al suo Amore amandosi vicendevolmente.

In questi pochi versetti il Vangelo descrive i tratti essenziali della comunità cristiana giovannea, "del discepolo amato da Gesù", dai tratti singolari che la diversificano dalle altre che fanno riferimento ai "Dodici". La giustificazione della esperienza di questa comunità sia in rapporto alla fede ebraica che alle altre comunità cristiane è una preoccupazione sottostante a questo testo.

Tutto il cap.10 è incentrato sulla figura del pastore autentico, tuttaltro che "romantica", in fortissima tensione con i "Giudei": se la figura del pastore è radicata nel messaggio dei profeti, la interpretazione che Gesù ne dà è così personale e nuova che quanto più egli la precisa e tanto più suscita le reazioni violente dei Giudei. Si passa dal dissenso e dalla accusa di indemoniato (vv.19-21) al tentativo ripetuto di lapidarlo (vv.31.39) e di catturarlo: ma egli sfugge dalle loro mani.

La questione centrale, posta con estrema chiarezza, riguarda l'identità di Gesù: "Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente". L'identità messianica di Gesù è la novità di cui vive la comunità del discepolo amato: ma come egli, testimoniando la sua personale identità provoca il rifiuto dei Giudei, la comunità di coloro che credono in lui continua (anche oggi) a sperimentare la difficoltà di poter vivere la stessa novità.

La comunità del "discepolo che Gesù ama" che è il soggetto della testimonianza del quarto Vangelo, è composta da coloro con i quali egli ha un rapporto personale e che rispondono vivendo il loro rapporto con lui. Quando Gesù risorto rivolge ai discepoli l'invito: "Venite a mangiare", l'evangelista commenta: "nessuno di loro osava domandargli: ‘Chi sei', perché sapevano bene che era il Signore". La comunità del Vangelo di Giovanni è quella dei discepoli che conoscono interiormente Gesù, perché ne sperimentano l'amore e si amano vicendevolmente, tanto da essere riconosciuti dal mondo unicamente da questo: "amici" è il loro nome, quello che hanno ricevuto da lui. La fede, per il Vangelo di Giovanni, non è una adesione semplicemente intellettuale: è una "conoscenza" intima, una comunione d'amore. La fede è l'altro modo per dire l'amore, che diventa la vita nuova.

Lo scopo per cui il Vangelo è stato scritto è proprio questo: "perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate la vita nel suo nome" (Giov.20,30-31). Queste parole oggi sono rivolte a noi, perché viviamo l'esperienza dell'incontro con Cristo risorto con la forza dirompente che il Vangelo propone: proprio perché è risorto è possibile un'esperienza di fede-amante che supera il tempo e ci mette in relazione personale con lui.

"Perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio": tutto il Vangelo di Giovanni è una testimonianza dell'identità di Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio. A differenza dei sinottici nei quali Gesù chiede ai discepoli: "La gente chi dice che io sia?" e "Ma voi chi dite che io sia", nel quarto Vangelo è lui che dice: "Io sono". Subito dopo i versetti che la Liturgia ci fa leggere in questa domenica, il Vangelo narra che i Giudei raccolsero le pietre per lapidarlo, dicendo: "Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma perché tu che sei uomo ti fai Dio". In realtà il Vangelo di Giovanni continua a rivelare il contrario: non è l'uomo che si fa Dio ma Dio che si fa uomo. Non si tratta di idolatria perché, al contrario di essa che è la divinizzazione dell'uomo, in Gesù avviene la umanizzazione di Dio: "la Parola si è fatta carne". In Gesù, Dio è disceso nella carne umana, sino alla morte in Croce, innalzandola così alla sua gloria. In Gesù, nella sua persona, nella sua vita e nella sua morte è Dio stesso che si fa presente nella storia in modo nuovo e definitivo: in questo sta la novità di Gesù, Messia non solo perché inviato da Dio a restaurare il regno di Davide, ma perché il Figlio al quale il Padre ha donato tutto, perché egli doni tutto a chi segue lui, crede in lui e si lascia amare da lui.

Per questo Gesù è l' "Io sono", presenza visibile dell'infinito invisibile: "Io sono la via, la verità, la vita", "Io sono la porta", "Io sono il pastore buono".

Dalla pienezza della comunione di vita e di amore del Figlio nasce la comunità di coloro che, seguendolo, entrano nella sua stessa esperienza e continuano la sua "umanizzazione del divino": "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna". Gia l'Antico Testamento ha parlato di Dio come pastore del suo popolo: lungo i secoli della storia di Israele, in nome di Dio, molti si sono presentati come pastori, ma erano solo mercenari, sfruttatori delle pecore a proprio vantaggio, operatori di propri progetti. Gesù che si è spogliato di sé e si è abbandonato nelle braccia del Padre fino al dono totale della vita, lui che si è lasciato amare dal Padre che per questo gli ha ridonato la vita risuscitandolo, può dire "Io sono il pastore buono", la presenza certa e autentica del Pastore nella storia: ormai l'umanità non è più un gregge abbandonato, ma è avvolto dall'amore infinito di Colui al quale il gregge appartiene, non per meschini interessi, ma solo perché gli sta a cuore.

"Le mie pecore ascoltano la mia voce": la voce di uno che parla al profondo del cuore di ogni persona che cerca l'amore.

"Io le conosco": lui vivo, della vita nuova di Dio, che è più intimo di quanto ciascuno possa essere intimo a se stesso, entra in relazione personale con chi si lascia amare da lui, ne conosce i pensieri, i desideri, la fragilità.

"Ed esse mi seguono": dove? Per entrare nell'intimità con il Padre, lungo la via della quotidianità della vita, della Croce, la via debole della fragilità, del dono di sé, della tenerezza.

"Io do loro la vita eterna": non è il desiderio di possesso, di potere che conduce alla vita, ma la via debole che apre ad accogliere il dono della vita. La vita eterna di cui parla il Vangelo non è il futuro escatologico, ma l'oggi della vita percepita come presenza di Dio nella fragilità: la vita nella intimità con Colui per il quale tutto è talmente intenso che diventa inesauribile, tutto è continuamente da scoprire, da gustare...

La comunità del discepolo amato vive dell'intimità con il Dio che in Gesù è talmente entrato nella carne umana da farne il luogo dell'esperienza dell'Amore fedele e inesauribile di Dio.

"Nessuno le strapperà dalla mia mano": l'evangelista ci fa sapere che la comunità che trova la sua ragione di esistenza in un rapporto diretto di appartenenza a Cristo, Figlio di Dio, e nel rapporto di amore fraterno, sperimenta tensioni e difficoltà nel cammino concreto della storia e in relazione alle altre comunità più strutturate e più fortemente organizzate. Per questo il Vangelo di Giovanni ci mostra il cammino, dialettico, della comunità "amante" in rapporto alla comunità "credente", dell'anonimo discepolo che Gesù ama nella relazione con Simon Pietro: anche questo è ancora per noi, perché impariamo a vivere rimanendo nella Chiesa, il rapporto essenziale con Gesù, il Signore risorto.

 

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