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TESTO Non solo un rito

don Alberto Brignoli  

Giovedì Santo (Messa in Cena Domini) (28/03/2013)

Vangelo: Gv 13,1-15 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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1Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. 2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».

12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.

Se la Cena Pasquale del popolo ebraico si preoccupava del compimento delle norme e delle tradizioni che Mosè aveva dato al suo popolo, perché attraverso quel ricordo si potesse rendere nuovamente attuale l'Esodo, la Cena Pasquale che Gesù celebra, pur essendo la sua risposta di fedeltà alla tradizione ricevuta dai suoi padri, vuole essere qualcosa di profondamente nuovo. Ed è proprio questo "far nuove tutte le cose" che deve accompagnare il nostro senso di intimità con il Signore che certamente proviamo in una celebrazione come quella di questa sera.

La differenza sostanziale è che, mentre per il popolo ebraico la buona riuscita della celebrazione pasquale, e quindi anche la sua "efficacia salvifica", ossia i benefici che ne venivano al popolo d'Israele, erano dati dall'osservanza delle tradizioni in modo pignolo e liturgicamente corretto, per Gesù Cristo e per coloro che cercano di seguirne le orme, l'efficacia della celebrazione pasquale è data dalla comunione con Lui, e dalla carità che ne scaturisce.

E questo diventa un grande insegnamento per la nostra vita di fede, che in questi giorni, con tutti i suggestivi riti della settimana santa, corre il rischio di sentirsi "realizzata", "a posto", "compiuta" con la pura partecipazione, magari la più intensa e devota possibile, a questi momenti.

È importante, è bello, è doveroso rianimare la nostra fede attraverso la partecipazione al rito della Cena Pasquale e a tutto ciò che ne consegue: ma non basta.

La lettura del libro dell'Esodo ci descrive con dovizia di particolari tutto ciò di cui il popolo ebraico doveva preoccuparsi per rendere valida ed efficace la Cena Pasquale: dal tipo di agnello che bisognava utilizzare, alla modalità con cui andava preparato, sacrificato e consumato, all'utilizzo del suo sangue, con l'esortazione finale a ripetere questi gesti "di generazione in generazione come rito perenne".

Non va certo dimenticato che molti di questi elementi rituali legati alla Cena Pasquale ebraica si realizzano profeticamente nella vicenda di Gesù Cristo, che a ragione può essere considerato, come di fatto facciamo, il vero Agnello Pasquale. Il sangue dell'agnello dell'Esodo, versato sul legno degli stipiti delle porte delle case degli Ebrei per essere risparmiati dalla furia dell'Angelo sterminatore non può non rimandare al sangue di Cristo che, versato sul legno della Croce, salva l'uomo dallo sterminio che il peccato crea nel suo cuore.

Ma come dicevo, Gesù Cristo, nella sua cena pasquale, va ben oltre. Per lui, non si tratta solamente di sacrificare un agnello e di mangiarlo secondo le prescrizioni liturgiche nel ricordo vivo della liberazione dell'esodo; per lui, mangiare la cena pasquale insieme con i suoi discepoli allora, e con noi suoi discepoli oggi, significa entrare in totale comunione con lui, essere una sola cosa con lui, fare corpo e sangue con lui.

Questo è il motivo dell'istituzione dell'Eucaristia che in questa notte ricordiamo; ed è significativo vedere che Gesù ci chiede di fare comunione con lui attraverso l'assunzione di un alimento che non è l'agnello della tradizione ebraica (alimento che peraltro non fa parte della nostra mensa quotidiana), ma che sono il pane e il vino, elementi che non mancano mai sulle nostre tavole. Ciò significa che la condivisione della nostra vita con lui si basa non su qualcosa di occasionale, di festivo, di particolare, come può essere la carne dell'agnello, ma su qualcosa di quotidiano, di feriale, ovvero sul pane della mensa di ogni giorno.

Già da qui comprendiamo come il Signore vuole che ognuno di noi sia salvo non attraverso eventi particolari o cose eccezionali, ma attraverso la profonda assimilazione con lui nella faticosa quotidianità della vita di ogni giorno. È lì che si gioca la nostra fede, e non nella partecipazione occasionale ed eccezionale ai riti che si svolgono in un determinato periodo dell'anno.

Gesù condivide il suo corpo e il suo sangue con noi proprio come noi condividiamo con lui e con i nostri fratelli il pane e il vino della tavola quotidiana. Non c'è comunione con Gesù e con il suo corpo se poi questo non si concretizza in una condivisione del pane di ogni giorno con i nostri fratelli più bisognosi.

Ecco il senso del gesto della lavanda dei piedi collegato all'istituzione dell'Eucaristia. Non c'è rito, non c'è celebrazione, non c'e sacramento a cui partecipiamo che non ci chieda poi concretamente di essere tradotto in gesti di carità, di servizio, addirittura di abnegazione (come il gesto della lavanda dei piedi, che a quel tempo era il gesto degli schiavi verso i loro padroni).

Ecco perché allora non possiamo sentirci "a posto" solo per avere "fatto Pasqua" attraverso una bella confessione e un'assidua partecipazione ai riti di questi giorni.

Se non unisco a un'intensa celebrazione liturgica una vita fatta di carità, non posso dire di essere in comunione con Cristo. Se non unisco la partecipazione alla Cena Pasquale alla Lavanda dei Piedi, non comprendo il senso della vicenda di Gesù Cristo, così come lo fu per Pietro, che per accettare un Dio servo dell'uomo deve venire da lui minacciato di restare fuori dal Regno di Dio.

Noi abbiamo la fortuna, rispetto a Pietro, di avere alle spalle duemila anni di storia cristiana e di rinnovazione annuale di questi riti nelle feste di Pasqua; non gettiamo al vento questa grande opportunità di fare diventare la comunione con Cristo condivisione con le vicende umane di tutti i nostri fratelli, con l'atteggiamento di coloro che si mettono a servizio degli altri.

Con gli stessi sentimenti, cioè, di Cristo Gesù che, come ascolteremo domani, "spogliò se stesso assumendo la condizione di servo".

 

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