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TESTO Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori

Ileana Mortari - rito ambrosiano  

Penultima domenica dopo Epifania (anno C) (03/02/2013)

Vangelo: Mc 2,13-17 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 2,13-17

13Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. 14Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.

15Mentre stava a tavola in casa di lui, anche molti pubblicani e peccatori erano a tavola con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. 16Allora gli scribi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 17Udito questo, Gesù disse loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Il brano odierno ci presenta due episodi strettamente collegati: la chiamata di Matteo- Levi, il pubblicano, e il banchetto che il medesimo offre in onore di Gesù, con la partecipazione dei "colleghi" esattori del fisco e di altra gente malvista dai benpensanti.

In entrambi i casi viene sottolineato il comportamento assolutamente "anomalo" di Gesù, che chiama al suo seguito - esattamente come aveva fatto con semplici e onesti pescatori - un pubblico peccatore, senza nemmeno chiedergli prima un iter di "purificazione", e poi siede a mensa con gente di malaffare. Non dimentichiamo il profondo significato che aveva presso gli antichi il banchetto, che non era solo un pasto in comune, ma rivestiva un carattere sacro-religioso, e così da un lato era oggetto di attenzioni rituali (cfr. Mc.7,3) e dall'altro denotava una situazione di profonda comunione, pace, confidenza e fratellanza fra i commensali. Di conseguenza un "giusto" che pranzasse con dei peccatori, ne era contagiato negativamente, si contaminava!

Si tratta dunque di due situazioni-limite, attraverso le quali però Dio dimostra la sua prima prerogativa: la misericordia; questa è infatti, nel nuovo rito ambrosiano, la domenica della divina clemenza. Ora, se si vuole comprendere a fondo la straordinaria novità dell'annuncio evangelico, occorre ripercorrere le modalità che caratterizzavano il mondo ebraico negli ambiti sopra ricordati.

Anzitutto c'era la netta contrapposizione tra "puro" e "impuro".

La purità, concetto comune alle religioni antiche, è la disposizione richiesta per avvicinarsi alle cose sacre; nell'ebraismo essa assicura l'attitudine legale a partecipare al culto e alla stessa vita ordinaria della comunità santa.

Nella Bibbia è puro tutto ciò che avvicina a Dio e favorisce il culto; impuro è ciò che allontana da Dio e impedisce il culto a Lui dovuto: questa purità legale era simbolo della purità morale richiesta dal rapporto con Dio (cfr. Lev.11,44). Infatti, secondo la fede biblica, che ritiene buona tutta la creazione, la nozione di purità tende a diventare soprattutto interiore e morale.

Secondo la mentalità del tempo, rendevano impuri - e quindi impossibilitati a partecipare al culto - alcune malattie come la lebbra, e poi tutta la sfera legata alla nascita (parto, sperma, sangue mestruale), alla corruzione e alla morte (escrementi, il contatto di un morto).

Ancora, tutto ciò che era legato al paganesimo era impuro; le case e i beni conquistati dal popolo di Israele alle popolazioni pagane sono impuri e vanno perciò distrutti (cfr. Giosuè 6-7); le carni offerte agli idoli e poi vendute sui mercati sono impure (1° Macc.1,62-63; Atti 15,28-29), etc. Pertanto il semplice contatto con i pagani rendeva impuri.

Non solo, ma, secondo la mentalità giudaica del tempo di Gesù, anche alcuni mestieri rientravano nella sfera dell'impuro e contaminavano chi veniva a contatto con essi: erano le professioni di per sé peccaminose, in quanto inducevano all'immoralità (così la prostituzione) e all'ingiustizia; a questa seconda categoria appartenevano, tra gli altri, i giocatori di dadi, gli usurai e i pubblicani.

Com'è noto, i pubblicani erano esattori in subappalto, che dovevano riscuotere le imposte per il transito delle merci attraverso la dogana o per il loro ingresso in città, e tenevano per sé, quale compenso, una percentuale della somma lasciata alla loro discrezionalità, e normalmente ben superiore al dovuto. Per questo erano comunemente ritenuti ladri e truffatori, dunque impuri in senso morale; inoltre, poiché avevano a che fare con l'autorità romana occupante, e dunque con i pagani, contraevano per ciò stesso l'impurità anche legale.

Il disprezzo per peccatori di questo genere era così profondo che perfino i loro diritti civili venivano limitati. In un elenco di uomini che non possono far parte di un tribunale, né fornire testimonianza, il trattato Sanhedrin della Mishnà enumera «gli usurai, i pastori,.......... i pubblicani...» (bSanh. 25b). Secondo un altro passo della Mishnà, il pubblicano rende impuro tutto ciò che vi è dentro una casa semplicemente entrandovi, così come un pagano (Baba Q. 10,2).

Non c'era dunque alcuna possibilità di redenzione per i pubblici peccatori? Sì, almeno formalmente.

In teoria, la prostituta poteva essere purificata attraverso un elaborato procedimento che comprendeva il pentimento, la purificazione e l'espiazione; ma ci sarebbe voluto molto denaro, e quello impuro da lei guadagnato non poteva servire allo scopo, perché disonesto! Quanto ai pubblicani, si pretendeva che l'esattore rinunziasse alla sua professione e restituisse alle persone ingiustamente tassate ogni cosa, con l'aggiunta di un quinto.

Ora, la strabiliante novità di Gesù è che Egli fa saltare questa mentalità che identificava il peccato con il peccatore, per il quale in pratica non c'era via di scampo; infatti, se nel precedente episodio della guarigione del paralitico (Mc.2,1-12) Gesù si presenta come colui che ha il potere di riconciliare il peccatore con Dio, qui rende presente la salvezza di Dio per coloro che ne sono del tutto esclusi: i pubblici peccatori.

Proprio qui sta la novità: Gesù non aspetta che il peccatore abbia compiuto il lungo (e talora impossibile) rito di purificazione, per accostarsi a lui e con lui intessere un dialogo. Soprattutto Egli fa capire che, prima del peccato, vede in ognuno la persona, il figlio/a di Dio, da amare e perdonare.

Ecco perché non esita a chiamare tra i suoi discepoli un pubblicano; ecco perché siede a mensa con pubblici peccatori, instaurando con loro un rapporto di schietta amicizia; ecco perché non respinge la peccatrice in casa di Simone il Fariseo ed entra nella dimora di Zaccheo, il capo dei pubblicani di Gerico.

Altra grande novità è il fatto che, di fronte alla bontà assoluta e all'amore di Gesù, il peccatore scopre di colpo tutta la sua negatività e spontaneamente decide di cambiare vita (eloquente l'esempio di Zaccheo - cfr. Luca 19,1-10).

Si capisce allora la particolare insistenza con cui, non solo in questo passo, ma più volte nel vangelo, Gesù dice espressamente: "Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (v.17).

E si capisce anche qual è la nuova discriminante: non più tra giusti e peccatori, ma tra credenti e non credenti alla "parola" che Gesù annunzia (cfr. Marco 2,2).

 

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