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TESTO Commento su Daniele 9, 15-19; Prima Timoteo 1, 12-17; Marco 2, 13-17

don Raffaello Ciccone  

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Penultima domenica dopo Epifania (anno C) (03/02/2013)

Vangelo: Dn 9, 15-19; 1Tm 1, 12-17; Mc 2, 13-17 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 2,13-17

13Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. 14Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.

15Mentre stava a tavola in casa di lui, anche molti pubblicani e peccatori erano a tavola con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. 16Allora gli scribi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 17Udito questo, Gesù disse loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Daniele 9, 15-19
Il libro di Daniele costituisce un'opera coraggiosa e generosa poiché viene composta in drammatici momenti di persecuzione e di timore. Il libro di Daniele è stato scritto attorno al secolo II a.C., nel periodo in cui prende il potere in Siria Antioco IV Epifane: anno 175 a.C. Preoccupato della vastità del suo regno e delle molteplici culture che rendono difficile il governo, il re decide di uniformare tutti i popoli sottomessi nella cultura e nella legislazione ellenista, pretendendo così che debbano rinunciare ai loro dei o almeno introducano nel loro panteon anche gli dei importati da Antioco.
Molti dei popoli non hanno problemi e questo rende più sereno il nuovo dominio. Ma gli ebrei vedono in tutto questo una bestemmia ed un affronto e perciò si ribellano in uno scontro, impari eppure violentissimo e con alterne vicende. Antioco, per tre anni e mezzo, tenta di abbattere la resistenza con le armi. Il racconto delle lotte partigiane è raccolto nei libri dei Maccabei che ci danno un resoconto di questa lotta durissima. Ma mentre tale racconto della lotta dei fratelli Maccabei ricorda fatti ormai avvenuti nel passato, e quindi vi si può ritornare senza pericolo, il libro di Daniele è contemporaneo alle persecuzioni del II secolo. Così, per non tradirsi, l'autore colloca gli avvenimenti almeno tre secoli prima, in Babilonia, al tempo del re Nabucodonosor. In tal modo i fatti raccontati acquistano il significato compiuto di lotta, ma anche di soluzione e di pace poiché il popolo, alla fine, sarà liberato e chi vorrà potrà tornare. In realtà i fatti antichi vanno riletti nel crogiuolo della fatica e della persecuzione perdurante.
Il profeta chiede perdono e, in una prima parte, fa appello alla scelta di elezione che il Signore ha fatto per questo popolo, proteggendolo e liberandolo. In tal modo Dio stesso ha dimostrato la mano forte e il valore della sua potenza con la grandezza del suo nome che si è perpetuato fino al tempo del suo popolo sconfitto." Non ci è possibile accampare diritti o pretese poiché riconosciamo di avere sbagliato e riconosciamo che quello che è avvenuto è stato a causa della nostra infedeltà". Questo autore assomma l'infedeltà del popolo: quello del tempo di Babilonia e quello che si sta svolgendo nel tempo dei nuovi governanti.
La preghiera si fa', quindi, sempre più accorata e coraggiosa. Si risente il richiamo de: "Ascolta, Dio nostro" che corrisponde al richiamo corrispondente e reciproco di Dio: "Ascolta Israele". Non ci sono meriti e non ci sono diritti. Il profeta ammette: "Quello di cui ci si può fidare è la misericordia di Dio". La supplica è per Gerusalemme che è la casa di Dio, scelta da Lui come dimora nel popolo. "Piega il tuo orecchio e ascolta, apri i tuoi occhi e guarda". Chi prega assomma i sentimenti di tutti gli oranti. "Non ci permettiamo di portare davanti ai tuoi occhi le nostre opere giuste. Non sono all'altezza e non possiamo fidarci. Ma ci fidiamo della tua misericordia".
Il v.19 elenca 5 imperativi che sono altrettanti suppliche. Il numero cinque richiama la legge che, a questo punto, non può salvare questo popolo. Solo la misericordia di Dio può essere capace di novità e di pace.
1Timoteo 1, 12-17
Questa lettera ha come destinatario non tanto una comunità quanto una persona, Timoteo, discepolo da molto, grande collaboratore di Paolo che, poi, è stato posto a capo della Chiesa di Efeso, mentre Tito, altro destinatario di una delle tre "lettere pastorali", è a capo della Comunità nell'isola di Creta. Le tre lettere (due a Timoteo e una a Tito) sono dette "pastorali" perché sono indirizzate ai responsabili di comunità, per la loro cura nel governo, nell'insegnamento e nella condotta della comunità a cui presiedono.
L'immagine che ne risulta è quella di una Chiesa ormai stabile, che ha bisogno di una organizzazione coerente e coraggiosa, capace di superare gli ostacoli e le iniziali eresie, serpeggianti alla fine del secolo I.
Timoteo è nato a Listra, da padre greco e madre giudea (At16,1). Forse convertito da Paolo stesso nella sua predicazione del primo viaggio missionario (attorno al 45 d. C), è lungamente istruito dalla nonna Loide e dalla madre Eunice, già cristiane. Al tempo del secondo viaggio missionario Paolo lo prende con sé, come collaboratore, e lo educa via via, maturandolo nella fede. Diventato adulto, assume importanti incarichi affidati da Paolo presso le comunità dei macedoni e di Corinto..
L'apostolo Paolo, in questi versetti, ricorda la sua conversione che Gesù ha compiuto "fortificandolo" e affidandogli il compito del ministero: "Così sono cambiato, dice Paolo, da bestemmiatore ad annunciatore. Il Signore sovrabbondò con la fede e la carità".
Paolo dice che la verità di Gesù, venuto nel mondo a salvare, è stata da lui stesso verificata. Sa così di essere diventato un esempio, un testimone ed ha raggiunto, senza merito, un tale ruolo da diventare maestro delle genti nella fede e nella verità.
La riflessione, che Paolo fa sulla sua esperienza, lo porta alla meraviglia ed allo stupore per la misericordia che riscontra su di sé e quindi sulla umanità che Gesù ha accolto e salvato. La conclusione del testo è una "glorificazione" (dossologia) di Dio Padre, segno di adorazione e di ringraziamento, in contrapposizioni alle tante divinità e divinizzazioni di imperatori e re.
Questo testo ci apre orizzonti gioiosi di benevolenza e di grazia che il Signore ci ha offerto. Egli ci ha fatti grandi. Non solo ci ha perdonati, ma ci ha ingigantiti nelle sue scelte e nei suoi valori, responsabili e costruttori di un mondo nuovo, inimmaginabile.
Paolo ci invita allora a scoprire il senso della nostra fede che apre significati e consapevolezze, rapporti nuovi e profondi, rivelazioni e garanzie che vengono dal cielo e restano, in ciascuno, come doni che nessuno ci può strappare.
Dal Vangelo di Marco 2, 13-17
Marco racconta dell'invito di Gesù a Levi perché faccia parte della sua sequela.. Si sta componendo il gruppo dei seguaci di Gesù e finora il Maestro, lungo il mare di Galilea, aveva invitato una coppia di fratelli a seguirlo, mentre erano intenti al loro lavoro. (1,16-20) Così Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni avevano lasciato il loro lavoro e si erano uniti a Gesù. Ora Gesù, ancora lungo il mare di Galilea, incontra Levi, figlio di Alfeo che sta lavorando al banco dei gabellieri. Lo invita e Levi si alza e lo segue. Ma la professione di Levi è considerata disonesta poiché gli esattori sono ritenuti avidi di danaro, interessati e sfruttatori, rinnegati dal punto di vista religioso e politico. E' proibito ricevere un'elemosina da loro e cambiare il danaro ai loro banchi, poiché certamente il loro danaro proviene da un furto. Levi è un impiegato subalterno che riscuote i diritti di entrata o il pedaggio per merci e schiavi ai confini di una provincia o di una città. E' un esattore giudeo e, in Galilea, è a servizio dell'autorità di Erode Antipa, alleato dei romani e quindi particolarmente odioso.
Gesù, a questo punto, ha al suo seguito ebrei onorati ed ebrei esclusi dalla convivenza religiosa. Egli vuole costituire un popolo nuovo, superando tutte le preclusioni. Marco dice che, insieme con Levi, si ritrovano a mangiare a casa di lui con persone del suo genere. E Gesù, mentre mangia con loro, non ha un atteggiamento di rifiuto, né esprime giudizio contro di loro o opposizione. Gesù mangia insieme, prende da vassoi comuni il cibo che viene offerto, esprimendo, così, vincoli di fraternità tra i commensali. Ci troviamo in un banchetto di amicizia, di libertà e di comunione, immagine del banchetto messianico. Nel suo testo Marco ricorda che Gesù sta in mezzo tra i peccatori e i discepoli per indicare un vincolo di comunione. Pubblicani e peccatori sono gli "esattori e i miscredenti" e questo fa inorridire scribi e farisei, le persone fedeli alla legge e quindi i giusti. I peccatori sono considerati esclusi dalla misericordia di Dio, poiché si sono rivolti a pagani per il loro mestiere, e sono diventati collaborazionisti con i nemici, gli sfruttatori romani. In tal modo sono praticamente impossibilitati a convertirsi.
Proprio questi giusti (le persone fedeli alla legge) vedono Gesù adagiato con i discepoli e i peccatori a tavola e si scandalizzano. Così l‘irritazione e lo sconcerto prendono forma in una domanda, formulata però ai discepoli, perché coloro che interrogano vogliono far rilevare le contraddizione e lesionare la fiducia nel Maestro. D'altra parte, sono sicuri di trovarli sprovveduti, in difficoltà e incertezze essi stessi, e sanno di porre una vera domanda sulla violazione della legge che non li avrebbe lasciati indifferenti.
E' Gesù che interviene e dà due risposte. La prima dovrebbe essere tradotta così: "Non sentono bisogno del medico quelli che sono forti ma quelli che stanno male. Non sono venuto ad invitare i giusti ma i peccatori".
"Quelli che sono forti" è ricordato sei volte in Isaia e rappresentano i capi e gli oppressori del popolo" (1,23-24; 3,1.2.25; 5,22; 22,3), "quelli che stanno male" fanno riferimento al popolo, abbandonato dai suoi dirigenti che continuano ad essere insensibili alla loro sofferenza (Ez 34,4). Così Gesù ribadisce ancora una volta di essere il nuovo buon Pastore.
E la parola adatta è "invitare (più che "chiamare")": invitare ricorda il banchetto. In tal modo il proverbio, probabilmente del medico e del malato, qui ricordato, rimanda all'esperienza e alla denuncia della oppressione. I veri oppressi sono nel popolo e tra questi ci sono i "peccatori", esclusi dalla società religiosa e civile che sentono il bisogno di un liberatore. Gli oppressori del popolo si sentono a loro agio e non sanno che cosa farne di un liberatore. In questo caso, però, la religione copre una ingiustizia sociale e rischia di appoggiare l'oppressione.
Gesù opera un intervento fondamentale: porta la sua parola che svela il vero volto di Dio, libera dal male passato, come è avvenuto con il paralitico (Mc2,5), infonde la vita e l'autonomia (libera dalla paralisi:2,12), allarga gli inviti per un popolo nuovo di fratelli.
Tutto il testo ci riporta alla misericordia e alla fatica di dover cambiare mentalità in noi e attorno a noi, perché la speranza diventi luminosa per tutti, anche per i rifiutati.

 

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