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TESTO Fede, vita, gioia vera: una cosa sola

don Alberto Brignoli  

III Domenica di Avvento (Anno C) - Gaudete (16/12/2012)

Vangelo: Lc 3,10-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 10le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». 11Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto». 12Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». 13Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». 14Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».

15Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, 16Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 17Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

18Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

A volte, siamo pure capaci di accontentarci di poco. Se la crisi che stiamo vivendo ha avuto qualche elemento positivo, lo possiamo forse riscontrare in un'accresciuta capacità di andare all'essenziale, in altre parole la capacità di conformarci con le piccole cose che abbiamo, valorizzandole sempre più. E questa è certamente una cosa positiva, perché ci aiuta a liberarci dagli affanni dell'avere e del potere e ci insegna a puntare in maniera decisa la nostra attenzione verso le cose che contano.

A volte, però - anzi, oserei dire spesso - sappiamo accontentarci di poco anche nelle cose che riguardano Dio e la nostra fede in lui. E questo non è certo sintomo di essenzialità, ma espressione di un forte minimalismo, perché riteniamo che sia sufficiente professare alcune minime verità di fede e svolgere piccole e semplici pratiche di pietà per poterci definire credenti. Ma non è così: perché se credere significasse solamente accettare alcune verità di fede, manifestare sentimenti di interesse nei confronti delle cose riguardanti l'Assoluto, e partecipare alla Messa domenicale e in qualche giorno di precetto, allora non vivremmo in una situazione di crisi di fede come spesso, da più parti, ci viene segnalato. Ciò che abbiamo appena descritto, molti lo sanno e lo possono fare: purtroppo per loro (ma io dico "grazie a Dio", e lo motivo), vivere la vita di fede non può essere solo quello. E allora, sorge spontanea la domanda che per ben tre volte, in pochi versetti, viene rivolta nel Vangelo di oggi a Giovanni il Battista: "Che cosa dobbiamo fare?".

Una domanda così apparentemente banale e obsoleta (quante volte la ripetiamo, nella vita...) diventa in realtà la chiave di comprensione della fede cristiana. Una volta ascoltata da Giovanni la parola che richiama alla conversione in vista dell'arrivo del Cristo, e dato il proprio assenso alla parola ascoltata, dal cuore del credente scaturisce l'interrogativo fondamentale, ovvero quello relativo all'etica, alla morale, al comportamento, al "cosa fare" per accogliere il Cristo come Signore della storia e della nostra vita.

La profonda unità tra fede ed etica, tra fede e morale, tra professione verbale delle verità rivelate e comportamento quotidiano, ci fa capire ancora una volta che la nostra fede cristiana è una fede vissuta, realizzata, concretizzata, incarnata in un'etica che la rende visibile. In definitiva, non si può credere solo a parole: occorre credere con i fatti, con le opere, e nella verità. Forse, è proprio questa la "vita nello Spirito" che scaturisce dal "battesimo nello Spirito Santo" di cui il Battista ci parla come opera principale del Cristo che deve venire. Quello di Giovanni è un "battesimo con acqua", un battesimo di purificazione e di conversione, propedeutico, quasi pedagogico a quel "battesimo nello Spirito Santo" che sta a significare la profonda unione, la compenetrazione della vita divina di Dio con la nostra natura umana. Il battesimo di Giovanni - con acqua - purifica e prepara il credente al battesimo del Cristo - in Spirito Santo - che ci rende una cosa sola con lui.

Di cosa è fatta questa "vita nello Spirito", segno dell'unione del credente con Cristo, che vuole rendere visibile, tangibile, concreta, l'unione tra vita e fede, come dicevamo prima? In che cosa consiste quel "che cosa dobbiamo fare" richiesto a Giovanni Battista dalle folle che accudivano a lui per rendere concreta la loro adesione al cammino di conversione e d'incontro con il Cristo? Che cosa vuole dire, in definitiva, per noi, oggi, comportarsi da credenti? Luca mette in bocca a Giovanni Battista fondamentalmente tre atteggiamenti comportamentali che sono segno della vita nello Spirito, quella che caratterizza il vero credente: Carità, Giustizia e Servizio.

"Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto": una vita nello Spirito non può certo chiudere gli occhi alle necessità dei fratelli. Pensare solo ad accumulare per sé quando intorno a noi c'è gente che non ha il minimo per vivere, che non ha di che vestirsi e di che mangiare (le due principali necessità vitali), non è certo un atteggiamento di chi si professa credente in Cristo.

"Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato", dice Giovanni ai pubblicani, avvezzi all'usura e allo strozzinaggio. Se come cristiani non siamo capaci per primi a dare esempio di onestà e di giustizia nell'uso dei soldi, nell'amministrazione dei beni pubblici, e in un'equa retribuzione dei salari dovendo a ognuno secondo la dignità del proprio lavoro, possiamo tralasciare di recarci in assemblea, a messa, o in qualsiasi altra funzione religiosa, a cantare e pregare Dio "Signore nostra giustizia"!

"Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno": l'invito di Giovanni a coloro che esercitavano il potere spesso abusando delle loro funzioni suona come un pressante invito a vivere ogni forma di autorità e di responsabilità con quell'autorevolezza che viene da un atteggiamento di servizio, soprattutto verso i più deboli.

Ringrazio Dio per il Mistero dell'Incarnazione, perché solo una fede incarnata nell'umano mi permette di non separare il mio credere dalla quotidianità del mio vivere. Di una professione di fede asettica, che non abbia nessun contatto con la concreta realtà di ogni giorno, che mi distolga da un impegno a favore della giustizia, che mi faccia stare bene all'interno di una sagrestia, ma mi chiude gli occhi di fronte ai problemi concreti della gente, non so proprio che farmene.

E grazie a Dio, c'è sempre un profeta che evangelizza il popolo sulle cose di Dio; e lo fa con l'umiltà di chi sa di non essere padrone della fede di nessuno, bensì collaboratore della gioia di ognuno.

Gioia, sì: la gioia di cui ci parla la gaudiosa liturgia di oggi. Non una gioia ebete, canzonatrice, stupida, facile e crapulona, come spesso pensiamo sia la felicità; piuttosto, una gioia che a volte non si esprime in maniera evidente, ma che - come conclude Paolo nella seconda lettura - dona al nostro cuore quella "pace di Dio che supera ogni intelligenza".

 

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