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TESTO La nostra comunione con loro

padre Gian Franco Scarpitta  

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Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti (Messa I) (02/11/2012)

Vangelo: Gv 6,37-40 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 6,37-40

37Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, 38perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. 40Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

"Signore, dona loro, che amiamo nel tuo amore come non mai, dona loro, che ancora lontani da noi vanno verso la tua luce e ci indicano il cammino del pellegrinaggio tormentato, dona loro, che noi piangiamo e ci sono più vicini che mai, che si intrattengano e lottino con noi sulla terra. Signore, dona loro, dopo la battaglia della vita, la pace eterna e la tua luce perpetua risplenda ad essi come a noi, ora come luce della fede e poi nell'eternità come luce della vita beata."

Con questa preghiera da lui scritta, il teologo Karl Rahner compendia la fede cristiana nella vita eterna e il nostro rapporto con coloro che ci hanno preceduti nella gloria infinita, delineando non soltanto la possibilità che noi preghiamo, sulle tombe o nelle chiese, per i nostri cari defunti, ma anche la certezza che essi intercedono per noi e ci accompagnano nell'esperienza terrena. Noi preghiamo per loro e loro intercedono per noi e ci assistono.

Quella che noi instauriamo con i nostri cari defunti è insomma una relazione di comunione che si realizza nella preghiera. In essa noi affidiamo loro al Signore perché conceda loro il premio della perseveranza terrena nel bene e della costanza cristiana nella lotta e nel dolore e avvertiamo la certezza di essere da essi sostenuti mentre prosegue il nostro pellegrinaggio terreno. Nello stesso tempo, mentre chiediamo a Dio per loro la "luce perpetua", professiamo la fede nella vita eterna della quale abbiamo un saggio nella vita presente. Qualsiasi celebrazione esequiale e la stessa liturgia del 2 Novembre dovrebbero infatti incentivare in noi la memoria della provvisorietà della vita presente e ravvivare in noi la certezza di essere destinati alla vita senza fine nella dimensione futura.

Con i nostri cari abbiamo intrattenuto rapporti di stretta vicinanza, di amore e di comunione; con essi abbiamo vissuto esperienze liete e tristi, condividendo ora la sanità ora la malattia, ora l'esultanza per una meta raggiunta ora la depressione per una sconfitta o per un fallimento. Assieme ad essi abbiamo lottato, affrontato pericoli, imprevisti e non di rado vissuto anche incomprensioni e malintesi, condividendo insomma tutto quanto la vita rende esperibile.

Ma soprattutto abbiamo vissuto con loro all'insegna della fede e della speranza, per cui adesso, mentre affolliamo i nostri cimiteri deponendo fiori e lumini accesi sulle lapidi dei nostri cari, sempre nella fede concepiamo la certezza che la loro vicinanza e la loro compagnia sia parallela a quella di cui abbiamo usufruito durante la loro vita terrena: la fede ci sostiene nella certezza che essi non sono affatto scomparsi, ma che continuano a sostenere le nostre battaglie, assimilando tutti i nostri sforzi e rincuorandoci nelle difficoltà e nelle prove. Contemporaneamente anche noi sosteniamo loro ad estinguere eventuali residui di colpa attraverso la preghiera di suffragio, il dialogo continuo con i nostri cari nell'orazione e l'esercizio della carità effettiva vicendevole, che è il consolidamento della nostra fede. Alimentando la nostra relazione con i defunti non nella forma spiritistica banale dell'evocazione di presunti messaggi, ma semplicemente nella nostra fede che si esprime nella preghiera e nella carità, accresciamo la consolazione di non essere soli e di non banalizzare tutto quello che abbiamo fatto per loro e che essi hanno fatto per noi mentre erano in vita, siamo incitati a percorrere il nostro cammino vivendo il presente nella prospettiva del futuro, certi soprattutto di essere anche noi orientati verso lo stesso destino di gloria e di resurrezione.

Quando, quattro mesi orsono, inaspettatamente e senza preavviso alcuno, mio padre è stato sottratto alla vita presente, pur restando confuso e frastornato dalla tragicità dell'evento personalmente non ho potuto fare a meno di riscontrare una simile esperienza di lutto la si può vivere ed interpretare rettamente solo nell'ottica della fede. Qualsiasi altra prospettiva che si allontani dal credo religioso e soprattutto dalla nostra relazione con il Signore Risorto non è sufficiente ad incutere coraggio quando scompare un genitore mentre svolge una commissione in un negozio; la fede è invece l'unica risorsa in grado di offrire, in casi come questi, consolazione, dando le ragioni della speranza e della fiducia. Ho riflettuto sulla provvisorietà della nostra vita presente, sull'importanza della valorizzazione di ogni singolo momento, ma ho anche sperimentato tangibilmente la vicinanza di mio padre, ottenendo subito dei benefici e dei vantaggi concreti che prima non si erano verificati!

Sant'Agostino afferma che Coloro che ci hanno lasciati non sono degli assenti, sono solo degli invisibili: tengono i loro occhi pieni di gloria puntati nei nostri pieni di lacrime"; solo la fede può darci la prospettiva della visione di questi "invisibili" che torneremo a vedere tangibilmente al momento della visione beatifica, quando anche a noi sarà data la stessa dimensione di gloria. In questa ottica di assoluta fiducia non c'è spazio per il tentennamento, per il dubbio e le obiezioni servono solo a disorientarci e provocarci solo disanimo e sconforto: nella visione della fede l'unica prospettiva è abbandonarci fiduciosamente nelle mani del Dio vivente, concedendo noi stessi, in senso esclusivo, alla sua rivelazione e prestando ascolto attento alla sua Parola, senza che questa venga sostituita dalle nostre Parole. La fede insomma - come del resto si è detto a più riprese - è semplicemente credere e affidarsi con sicurezza e senza riserve e quando essa riguardi la vita eterna non può che conseguire gioia e consolazione a prescindere dalle lacrime.

Ma di quale fede stiamo parlando? Certamente non della credenza nella sola immortalità dell'anima: essa è presente anche nelle culture precristiane e in parecchie altre fedi religiose, ma non basta a qualificare la nostra identità privilegiata. Ci riferiamo alla fede, cioè all' abbandono fiducioso, libero e disinvolto, nel Dio della vita che ci ha donato la vita piena nella risurrezione del suo Cristo, all'adesione alla Parola di verità che lo stesso Signore ci rivolge quanto alla certezza che la morte è stata debellata nel passaggio dalla croce alla risurrezione e che "le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà" (Sap 3, 1 - 2); lo stesso Signore Gesù Cristo ha dimostrato non solamente di aver messo a tacere la morte ma che "Io sono la risurrezione e la vita, chiunque crede in me anche se muore vivrà e non morirà in eterno (Gv 11, 25 - 26) immedesimandoci nella certezza veritiera che nella stessa morte vi è la vita. Si tratta pertanto nella fede nella risurrezione, quella di cui è stato protagonista lo stesso Signore Gesù Cristo che, pur tremando all' imminenza del dolore e della morte, ha voluto affrontare deliberatamente il trapasso per deliberare definitivamente per la vita; della fede nel Signore Risorto che darà vita piena ai nostri corpi mortali esaltandoli anche al di là del sepolcro.

 

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