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TESTO Ma all'inizio non era così…

don Alberto Brignoli  

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XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (07/10/2012)

Vangelo: Mc 10,2-16 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 10,2-16

2Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, gli domandavano se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. 3Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». 4Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». 5Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6Ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; 7per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie 8e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. 9Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 10A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. 11E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; 12e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

13Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. 14Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. 15In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». 16E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

Mi accorgo che noi preti corriamo spesso il rischio, sulle tematiche della vita matrimoniale, di assumere un atteggiamento di tipo prevalentemente "moralista", ovvero quello di dire ciò che "si deve o non si deve fare" (come se noi lo sapessimo...), invece di preoccuparci di annunciare "la verità" sul matrimonio cristiano, cioè di dire "ciò che è", nella sua essenza, di dirne la sua bellezza e la sua grandezza.

Un atteggiamento, questo, molto simile a quello dei farisei del Vangelo che sul tema della vita matrimoniale sono preoccupati più di "ciò che è lecito e ciò che non lo è" (atteggiamento moralista e legalista, appunto) che non di annunciarne la grandezza e la bontà; dimensioni, queste, assunte "sin dagli inizi" da Dio in maniera così forte da farne un segno concreto di salvezza per l'uomo e per la donna, ossia un Sacramento.

Orientare i discorsi sul tema del matrimonio solo verso la morale matrimoniale, quindi, mi pare non solo riduttivo, ma anche poco onesto e oserei dire teologicamente scorretto. Non si può pensare di parlare correttamente di una realtà bella come l'amore tra l'uomo e una donna ponendo attenzione solamente alle possibili conseguenze che la vita a due comporta e quindi dare delle indicazioni morali su ciò che bisogna fare o non fare in determinate situazioni. Sarebbe come, di fronte a un bellissimo paesaggio innevato e illuminato dal sole, invece di contemplarne la bellezza, parlare delle possibili conseguenze del calore provocato dal sole e quindi come comportarsi nel caso si stacchi una slavina...

È per questo che a me piace, oggi, andare al "cuore", al "nucleo" del tema, così come fa Gesù nel Vangelo: in una relazione d'amore tra un uomo e una donna, non ci si deve preoccupare di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fare, ma di viverla nella sua pienezza e di esserne testimoni della sua bellezza e della sua grandezza proprio perché benedetta e voluta da Dio! La preoccupazione sulla morale, sul "è lecito o no", nasce - come Gesù dice nel brano di oggi - dalla "durezza del cuore", ovvero da quell'atteggiamento dell'uomo che gli fa perdere il senso più vero dell'amore perché non è più capace di amare, perché non è più capace di vivere l'amore in maniera "originale", ossia come era alle origini.

Con la loro domanda moraleggiante, i farisei tradiscono la loro incapacità di amare: sono preoccupati di trovare la forma "legalmente corretta" di interrompere un rapporto d'amore (tra l'altro, sempre a scapito della parte più debole, la donna) prima ancora di cercare di viverlo nella sua pienezza. E se vogliamo andare a vedere com'era agli inizi, la prima lettura ci dà una mano nell'individuare quegli aspetti che danno il senso profondo di ciò che è l'amore tra un uomo e una donna.

Innanzitutto, la presa di coscienza da parte di Dio che "non è bene che l'uomo sia solo". Ciò significa, al di là di come poi si declini nello stato di vita di ognuno di noi, che nessun uomo è un'isola. Nessuno può pensare di vivere la propria vita da solo, senza entrare in relazione con gli altri e con il mondo che lo circonda. Tant'è vero che uno dei grandi mali che l'uomo e la donna di ogni tempo vivono nella propria carne è esattamente la solitudine. Se pensiamo che Dio stesso è Trinità, e che quindi nemmeno lui può restare solo...

È poi interessante notare come nessuno degli esseri viventi creati da Dio a cui l'uomo "impone un nome" riesca ad essere per lui "un aiuto che gli corrisponda": forse proprio perché egli ha la pretesa, imponendo loro il nome, di creare uno stato di dipendenza, di sottomissione, da cui possa scaturire un aiuto.

Ma non può essere così. Perché amare, non significa dominare; aiutarsi reciprocamente non può presupporre un atteggiamento di sottomissione. Se l'amore non libera, e non crea uguaglianza, reciprocità, sostegno vicendevole, non può essere amore. Già qui, i nostri amici farisei, con il loro atto di ripudio da firmare per cacciare via la compagna della propria vita (come se fosse un dipendente da licenziare) hanno fallito tutto nella comprensione del senso dell'amore.

L'uomo dell'Eden non capisce ancora il vero senso dell'amore, lo interpreta come dominio. Ha bisogno di capire, di ascoltare Dio, di fare silenzio dentro e attorno a sé. E allora, Dio lo zittisce, lo fa addormentare (nella Bibbia, il sonno è spesso il segno dell'ingresso nel mistero di Dio), per aiutarlo a comprendere il senso vero dell'amore, ovvero che l'altro è "ossa delle mie ossa e carne della mia carne", che l'altro è - in fondo - il tuo essere pienamente "te stesso", che l'altro è la piena realizzazione di te, che non è qualcosa che ti appartiene come un oggetto, ma è qualcosa che fa parte di te come la tua stessa vita, e che ripudiarlo e rigettarlo è ripudiare e rigettare te stesso...

Ecco perché (conclude Genesi) "l'uomo - e pari passo vale anche per la donna - lascerà suo padre e sua madre per unirsi alla sua donna e i due saranno una carne sola": perché andare in cerca dell'altro, di quell'altro che la vita ti fa incontrare, è andare a ricostituire quella parte di te che ti manca, che ti è stata tolta, che è "te stesso", da sempre.

Questo ci aiuta a capire come le molte crisi e difficoltà che esistono nella vita di coppia, oggi più che mai, non sono causate da una dilagante immoralità o da una società così depravata che permette tutto. C'è anche questo, senz'altro. Ma il problema è più a monte, ovvero nel fatto che oggi spesso abbiamo smarrito il senso profondo e originario dell'amore. E questo lo manifestiamo in tutti quegli atteggiamenti di superiorità, da "superuomo" che - come già ai tempi di Gesù - ci portano a mettere sempre su un piano d'inferiorità coloro che culturalmente e per condizione riteniamo deboli (le donne e i bambini, ad esempio, tanto bistrattati anche al tempo di Gesù), mentre "debole" non coincide quasi mai con "inferiore", ma con "simile a me", perché tutti abbiamo le nostre debolezze.

Manifestiamo lo smarrimento del senso profondo dell'amore ogni volta che confondiamo le prove della nostra maturità umana con atteggiamenti maschilisti, oppure con atteggiamenti (sia maschili che femminili, qui non faccio alcuna distinzione) che esaltano ed esasperano la sensualità e lo sfacciato desiderio di "apparire" come unica "via", unico "modo" per entrare nella vita dell'altro; ogni volta che riempiamo di relativismo tutto ciò che facciamo e che viviamo, e quindi anche le nostre relazioni d'amore ("Viviamola come un'avventura, finché va, e quando non va più, ci lasciamo.."), quando in realtà Dio ci ha insegnato a vivere di eternità, e a mettere semi di assoluto e di eterno in tutto ciò che facciamo e che viviamo, e quindi di non sbarazzarci con tanta facilità di ciò che lui ha faticato per rendere assoluto, e quindi vero.

Il tema essenziale della vita matrimoniale, quindi, non è da leggere in chiave moralista: "Sono unito a mia moglie, quindi di fronte alla società sono a posto e sono buono"; "Ci siamo separati, e sentiamo sopra di noi i pregiudizi della società che ci considera cattivi", come se la situazione matrimoniale formalmente regolare di fronte alla società bastasse a rendere già di per sé "buono" un matrimonio...fosse così semplice!

Il problema è: cos'è la mia relazione con l'altro? Di che spessore, di che qualità, di che essenza è? Che cos'è? È amore vero o è solo un falso surrogato? Amo veramente l'altro (e quindi dentro sono vero) oppure - come l'uomo dell'Eden all'inizio - "gli impongo il nome", lo domino (e quindi sono falso)? Condivido con l'altro ciò che io vivo (e quindi sono vero), oppure mi isolo da lui, pur continuando a vivere sotto lo stesso tetto (e quindi sono falso)? Nella mia relazione con l'altro riesco a esprimermi per ciò che sono, mi sento "me stesso nell'altro", mi sento realizzato nell'altro (e quindi sono vero), oppure l'altro è per me una comodità, un insieme di cose che fa per me "a buon prezzo", ma in realtà mi fa sentire frustrato e per niente realizzato (e quindi falso)? Penso che da riflettere ce ne sia abbastanza per tutta la durata di una vita di coppia...

Se occupassimo anche solo un po' del nostro tempo quotidiano a valutare con l'altro con cui condividiamo la vita a che punto sta il senso profondo del nostro amore, avremmo ben poco tempo, e ci passerebbe pure la voglia di occuparlo in tante altre fesserie che ci parlano d'amore ma non sono affatto in grado di insegnarci a viverlo come esso merita di essere vissuto.

 

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