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TESTO Commento su Isaia. 54, 5-10; Romani. 14, 9-13; Luca. 18, 9-14

don Raffaello Ciccone  

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Ultima domenica dopo l'Epifania (Anno B) (19/02/2012)

Vangelo: Is. 54, 5-10; Rm. 14, 9-13; Lc. 18, 9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 18,9-14

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Lettura del profeta Isaia. 54, 5-10
L'esilio è il punto di riferimento fondamentale e drammatico per l'esperienza di Israele: ha segnato il crollo di tutte le istituzioni, della propria coesione, del regno, di Gerusalemme e del tempio. Perciò questo popolo vive, nello stesso tempo, nella delusione e nella nostalgia, ma senza nessuna prospettiva sul futuro. Il profeta ha invece grandi sogni e già nel capitolo 52 incoraggia dicendo: "Rivestiti della tua magnificenza" ossia "Gerusalemme, indossa le vesti più splendide" (52,1). La promessa è per un prossimo riscatto che il Signore è capace di fare senza danaro (52,2) e "il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: «eccomi»" (52,6).
Testi successivi aprono la rivelazione di un misterioso "servo di Dio" (capp 52- 53).
Nel capitolo 54 viene ripreso con chiarezza l'invito di speranza di Dio e del profeta a questo popolo, nessun futuro, rassegnato e angosciato. Come garanzia, Dio dice e svela il suo nome (che qui sono tanti): "Il tuo creatore, il Signore degli eserciti, il redentore, Santo di Israele, Dio di tutta la terra, ma soprattutto sposo" (54,5). Il Signore dà garanzie: la donna che è stata abbandonata avrà ancora più figli della donna sposata, la desolazione di questo popolo vinto scomparirà all'invito di Dio: "Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti perché ti allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza possiederà le nazioni" (54,2-3). Continuano ad essere riprese le immagini del tempo dell'Esodo: è un popolo di pastori, nomade e quindi le immagini che si susseguono sono quelle del tempo della liberazione dall'Egitto, quando un popolo, nella sua gioventù, si sposa con il suo Dio Liberatore, nel deserto.
il profeta tende a ricostruire una semplice teologia della storia dove gli avvenimenti di Israele sono rilevati. All'inizio ci sono l'abbandono della legge di Dio e quindi la desolazione, pur nella presenza di Dio che ama profondamente. Ma poi l'annuncio del profeta garantisce nell'oggi l'amore verso il popolo che smuove gli ostacolo, l'attenzione a riscattarlo, la prospettiva del benessere (verranno le nazioni), e della ricchezza di vita (v 2) e quindi un giuramento che Dio fa a questo popolo per incoraggiarlo: "Giuro di non più adirarmi con te e di non più minacciarti"(54,9). Dio fa un giuramento e lo ricollega all'impegno preso con Noè con cui ha mantenuto la parola. Il popolo sa verificare che effettivamente, dopo il diluvio, non è più avvenuta nessuna inondazione che abbia sommerso il mondo. Così il mondo ha continuato a crescere e si è sviluppato in pace.
Il testo è ricco di speranza, e tuttavia la storia di Israele manifesta tempi drammatici. Giovanni Battista e Gesù diranno allora che la fedeltà del Signore è importante, ma se non ci si gioca in una fedeltà anche da parte nostra, la tragedia avverrà ugualmente perché è procurata da noi. Dio non ripudia ma vanno smantellate le sicurezze che ciascuno crede d'aver raggiunto, manipolando la realtà o interpretandola solo come ubbidienza formale, legata a gesti di ossequio anche pesanti alla legge che li illuse e ma che tuttavia non ricostituiva nel cuore la fiducia nella novità di Dio e la sua misericordia. In questa prospettiva si può rileggere la predicazione di Gesù stesso e quindi il suo rifiuto a intravedere nella legge una garanzia senza misericordia, Nel suo ricordare continuamente il credente deve poter accogliere la paternità di Dio e maturarla nella volontà di Dio. Gli ebrei si sentirono garantiti dalla parola del profeta e immaginarono che la salvezza potesse essere presente automaticamente. Così si prepararono con le proprie mani la tragedia e comunque la certezza che Gerusalemme non sarebbe stata presa. Eppure crollò negli anni 70 d.C., proprio con i Romani in una totale distruzione. Gesù stesso insistette quando gli riferirono di alcuni Galilei che Pilato aveva fatto giustiziare:: "Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo".(Luca 13,3).
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani. 14, 9-13
San Paolo si preoccupa, negli ultimi capitoli della sua "lettera ai romani", di affrontare alcuni problemi concreti che egli sta probabilmente verificando anche a Corinto da cui scrive. È una situazione, questa, che può portare disorientamento e lacerazioni all'interno della comunità cristiana: quella cioè della convivenza tra persone che provengono dal giudaismo e dal paganesimo. Le prime sono spesso ancora cariche di quella esperienza e di quell'abitudine religiosa che fa selezionare i cibi o i giorni, preoccupandosi degli alimenti puri o impuri; le altre persone, provenienti dal paganesimo, invece, non se ne preoccupano affatto perché non hanno nella propria tradizione una esperienza di selezione tra puro e impuro. Questo capitolo inizia così: "Accogliete tra di voi chi è debole nella fede senza discuterne le esitazioni" (14,1).
Paolo dice che ci sono persone che hanno una fede debole, vivono con scrupolo il nuovo atteggiamento e la nuova predicazione e comunque sono portati a giudicare gli altri che non si preoccupano della purezza o meno dei cibi che mangiano. Quelli che invece si sono fatti una convinzione più profonda e più matura della fede superano queste preoccupazioni e si orientano profondamente verso Cristo e la sua volontà, ma rischiano di considerare infantili i loro fratelli e sorelle che invece mantengono alcuni costumi giudaici.
L'apostolo sottolinea il principio della sottomissione dell'appartenenza a Cristo. "Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno di noi muore per se stesso; se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore" (14,7). Paolo ricorda che siamo del Signore e che Gesù morì e risuscitò per noi. Ci ha riscattati, ci ha comperato con il suo sangue e questa padronanza che Egli ha conquistato ci porta al suo stesso criterio di attenzione e di amore. Secondo il suo sacrificio la vita cristiana consiste nel non giudicare ma nello sviluppare una carità reciproca di attenzione e di accoglienza. Né il debole può giudicare e condannare il forte né la persona forte può disprezzare il debole. Solo Gesù è il giudice supremo. Solo Lui può esaminarci nell'ultimo giudizio e solo lui è capace di saper analizzare la nostra fede e i nostri errori.
Così il clima della comunità cristiana deve essere un clima di accoglienza, di fiducia reciproca, di rispetto.
E se questo vale nei riguardi della fede, una comunità ci sente accogliente e forte per rispettare i valori che Dio pone nella vita di ciascuno. Infatti una comunità cristiana vive con amore, ma è anche testimone responsabile di un mondo che ha bisogno di generosità, di gratuità, di attenzione e di fiducia reciproca.
Lettura del Vangelo secondo Luca. 18, 9-14
Gesù si esprime spesso in parabole poiché, per lui, l'esemplificazione della vita quotidiana diventa un vero registro di comprensione e di moralità. Esse permettono, attraverso i gesti quotidiani totalmente comprensibili, di intravedere le nuove linee che Gesù suggerisce nei riguardi del Padre, del Regno, di Lui stesso. Mentre il racconto, d'altra parte, è comprensibile, le conclusioni, spesso, procurano un profondo disorientamento perché non necessariamente la parabola corrisponde al nostro buon senso. Ma la parabola, molto facilmente, spiazza le attese e confonde i normali criteri di giudizio.
L'ascoltatore di Gesù non deve certo dimenticare quello che il Signore dice: "i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie" (Is 55,8), ma da un personaggio così concreto, un rabbi, un maestro, uomo tra uomini non ci si può aspettare questa straordinaria novità. Così pensano i suoi interlocutori che, spesso, lo rifiutano.
Questa parabola, detta del "fariseo e del pubblicano", fa parte di quelle sconcertanti novità che Gesù porta poiché sembra scalzare completamente i criteri della giustizia e criteri della coerenza etica.
Il fariseo è un uomo di grande fede e di coraggiosa attenzione morale: digiuna due volte la settimana: il lunedì e il giovedì; tende a riparare i peccati degli altri e a intercedere per il popolo per ricevere le benedizioni di Dio. Un normale ebreo credente è, invece, impegnato, secondo la legge, al digiuno una volta all'anno. Il fariseo si preoccupa di pagare la tassa al tempio, la decima di tutto quello che acquista: grano, vino, olio, il primogenito del gregge e si preoccupa anche di pagare la tassa al posto dei contadini i quali, spesso, nella loro povertà, si fanno furbi e non adempiono all'obbligo; così il fariseo paga la decima anche per gli altri, di tasca propria, ogni volta che acquista un prodotto. In tal modo può dire al Signore: "Molti sono disonesti ma, Signore, non prendertela; molti sono bravi come me". Il fariseo è un buon religioso, si sente a suo agio davanti a Dio, prega in piedi con grande dignità ed è orgoglioso del tanto bene che compie.
Il pubblicano teme il Signore ed ha paura. Sa di non comportarsi bene, sa di non essere degno di pregare, sa che è impossibile per lui la salvezza perché collabora con i romani che sono oppressori del popolo di Dio; le tasse che esige sono sempre molto più alte rispetto a quello che i contribuenti dovrebbero pagare e non difficilmente usa la forza dei militari che ha sempre con sé per obbligare e per difendersi. Se volesse convertirsi secondo la legge, dovrebbe restituire tutto quello che ha rubato, aggiungendovi il 20% di interessi e abbandonare immediatamente la sua infame professione. Poiché tutto questo è impossibile per lui, i rabbini affermano che per i pubblicani la salvezza è impossibile.
Questi sono i due personaggi di cui parla Gesù ai discepoli: siamo infatti in un contesto di spiegazione non aperto alla folla che può benissimo non accettare. Gesù parla ai discepoli che si fidano di Lui e hanno deciso di seguirlo. Perciò queste fanno parte delle linee fondamentali di vita che i discepoli debbono accogliere e maturare dentro di sé. La conclusione è sconcertante perché il pubblicano è reso giusto da Dio: ha infatti riconosciuto di non essere all'altezza, e l'unica speranza che resta è la misericordia del Signore; non ha altre soluzioni da presentare.
Il fariseo ritorna a casa come è avvenuto: con tutte le sue opere buone, con il suo orgoglio di persona onesta, con la sua consapevolezza di poter giudicare tutti e il mondo peggiori di lui, con la sicurezza di essere stato ascoltato da Dio. Ma il Signore non lo giustifica, non lo rende giusto. Il fariseo è un ingenuo che crede d'aver capito tutto di Dio. Ha rispetto della Legge, ma non ha scoperto la misericordia del Signore e quindi non sa di aver bisogno di Dio per camminare nella giustizia.
Il pubblicano, che non è un modello di vita virtuosa, è il povero che è sa di offrire a Dio solo la consapevolezza di essere disonesto e peccatore ma è il povero che sa di potersi e doversi fidare di Dio. Non sulle opere buone può contare ma solo sulla gratuità.
La parabola che Luca racconta è chiaramente rivolta allo stile di una comunità cristiana: c'è il pericolo per i buoni di sentirsi migliori degli altri, di chiudersi nella propria onestà e di disprezzare. C'è il pericolo di lacerare la comunità cristiana tra i giusti e disonesti, e perciò incapace di accogliersi, incapace di scoprire i valori delle cose belle che ciascuno porta, incapace di pensare che Dio si occupa di tutti.
Il fariseo, in fondo, onesto nel suo comportamento, ha sequestrato Dio per sé a e immagina che il Signore, come lui, abbia schifo dei peccatori.
Questa parabola pone grossi problemi nei nostri giudizi verso le persone. Questo non significa che dobbiamo dire che ogni persona, comunque, si comporta in modo onesto e serio. Ogni persona, qualunque cosa faccia, ha la responsabilità di fare quello che è giusto. Ma questo ci dice che dobbiamo saper seriamente analizzare la realtà e saper individuare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato agli occhi di Dio, ciò che vale e ciò che non vale. Ma non possiamo fare un salto qualitativo e giudicare la persona come abbiamo giudicato i suoi gesti. Ogni persona è un mistero e solo Dio sa leggere questo mistero. A noi, dice Gesù, spetta di vedere il bene e di amarlo, ma anche di accogliere, di portare pace, di individuare ciascuno come persona che merita attenzione. Perlomeno almeno persone per cui si prega con amore.

 

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