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TESTO Missione: la potenza liberatrice del Vangelo

don Alberto Brignoli  

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (16/10/2011)

Vangelo: Mt 22,15-21 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 15i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Per la riflessione di questa domenica, mi lascio provocare da Paolo attraverso le parole da lui pronunciate nella seconda delle letture di quest'oggi. Senza nulla togliere alla bellezza e alla profondità del testo evangelico di Matteo proposto per questa domenica, e volendo offrire ancora uno spunto di riflessione missionaria, mi sembra di poter dire con onestà che nel Vangelo non vi trovo degli spunti particolarmente significativi, per cui vorrei riflettere proprio a partire dalla lettera di Paolo ai Tessalonicesi.

Paolo vuole rassicurare gli abitanti di Tessalonica, di fronte ad annunci poco credibili che giungevano loro, che il Vangelo che lui aveva loro annunciato era il vero Vangelo, e che questo "vero Vangelo", rispetto ad altri "falsi Vangeli", dava a Paolo l'assoluta certezza della salvezza dei suoi ascoltatori. Potrebbe sembrare un'espressione estremamente presuntuosa: in realtà viene dal cuore di chi sa di essere stato annunciatore del Vangelo non per la validità dei propri meriti, ma per la grazia del Signore che ha agito in lui. E il frutto più bello di questa "predicazione vera" era proprio la comunità di Tessalonica, che Paolo non esita a definire "Chiesa" sin dal primo momento. (Non dimentichiamo che questa lettera di Paolo è considerata il testo più antico del Nuovo Testamento, più ancora dei Vangeli scritti).

Ecco quella che secondo me dev'essere una delle caratteristiche principali di chi, oggi, vuole essere missionario: l'umiltà, la consapevolezza che ciò che si realizza attraverso le sue mani e le sue fatiche sono opera esclusivamente di Dio. A me capita spesso di incontrarmi con gente che sta per partire per un'altra chiesa sorella del mondo e che si sente "arrivata nella fede", "sapiente", "mandata a portare la salvezza". Io, dopo nove anni di Bolivia, posso dire quanto sia falsa questa "autoconvinzione" di essere "portatori della salvezza": il Signore è già là, nella terra di missione, ad attenderci perché facciamo insieme con lui e con quella gente un tratto di strada del Vangelo da discepoli, ma soprattutto da servi.

La bellezza dell'annuncio di un missionario come Paolo viene, poi, dal fatto di non aver annunciato il Vangelo solo a parole, ma - come dice ancora la lettura - con "potenza", con lo "Spirito Santo" e con "profonda convinzione". Che cosa sono queste tre qualità che Paolo ci ricorda?

Innanzitutto la "potenza". Un Vangelo "potente", per Paolo, non è un "Vangelo schiacciante", oppressore, ma un Vangelo che fa esplodere tutte le potenzialità che ci sono nell'uomo, che lo libera, che cambia completamente la sua vita. La sensazione che si ha tornando in Italia dopo un'esperienza missionaria presso una chiesa più giovane delle nostre è quella di tornare a vivere in luoghi dove il Vangelo ha perso la sua potenza, la sua carica esplosiva; non perché sia debole in sé, ma perché fa una terribile fatica a scardinare la vita delle persone. Cosa che invece colpisce subito chi viene a contatto con un'esperienza di Chiesa del sud del mondo, dove il Vangelo riesce ancora ad avere una forza dirompente perché c'è uno stato d'animo, quello del povero (spiritualmente, oltre che materialmente), ben predisposto a lasciarsi invadere dalla forza del messaggio di Cristo.

Quanto più ci riempiamo di noi stessi e di cose materiali che crediamo possano rappresentare la nostra felicità, tanto meno riusciamo ad accettare che il Vangelo, con la sua potenza, metta a soqquadro la nostra esistenza. Non dico che ciò non sia possibile anche nelle Chiese di paesi arricchiti, ma deve avvenire attraverso una profonda conversione personale e comunitaria, non è più un processo naturale. Chi non ha niente, in definitiva, ha tutto, perché ha Dio.

La fonte di questa potenza, ci dice ancora Paolo, è "lo Spirito Santo". È difficile che le parole di un annuncio, per quanto belle siano, possano trasformare la vita delle persone. Se ciò avviene, è perché c'è uno Spirito che agisce di là delle parole, delle celebrazioni, dei riti, dell'eloquenza, delle attività e delle belle strutture che l'attività missionaria della Chiesa porta con sé. Il tema delle strutture e dell'impalcatura che sempre accompagna il missionario del Vangelo è un'eterna spina nel fianco dell'evangelizzazione. In passato, come nel presente, la Chiesa ha accompagnato (in buona fede, nella maggior parte dei casi) all'annuncio del Vangelo la costruzione di una serie d'infrastrutture (non solo materiali, ma anche pastorali e organizzative) che hanno appesantito e continuano ad appesantire l'opera evangelizzatrice dello Spirito. Mi chiedo spesso se sia giusto continuare a invadere i paesi poveri di ogni parte del mondo con una serie di strutture che appesantiscono fortemente l'azione missionaria della Chiesa e che spesso fanno correre al missionario il rischio di non sapersi più incontrare con la sua gente in chiave prevalentemente spirituale. Le opere sono necessarie, per carità, anche per far sentire coinvolti nella nostra missione coloro che ci stimano, ci appoggiano, ci sostengono, si sentono in missione con noi pur non potendo partire. Ma facciamo attenzione che queste opere non diventino poi un peso difficile da sostenere per le chiese locali, o che ci assorbano al punto da non darci più il tempo di stare con la gente.

E poi, c'è la "piena convinzione" dell'avere annunciato il Vangelo, in altre parole quella che proviene dalla percezione dell'importanza che il Vangelo ha avuto ed ha innanzitutto per me e per la mia vita. È ben difficile comunicare agli altri qualcosa in cui io non credo. È impensabile essere missionari del Vangelo se prima questo stesso Vangelo non ha sconvolto la mia esistenza e la mia esperienza di Dio. Non è così scontato che chi parte per un'esperienza di missione parta perché ha sperimentato su di sé la grandezza dell'amore di Dio. Spesso, nella missione c'è più filantropia che il resto. C'è più la voglia di aiutare l'altro che una comunicazione dell'esperienza di fede. Certamente, può essere una grandissima esperienza di condivisione con la vita del povero anche quella di chi parte per un'altra terra con motivazioni altruistiche. Ci sono organismi di volontariato al di fuori dell'ambito ecclesiale che fanno molto più e molto meglio di ciò che fanno i missionari del Vangelo. Benissimo, ma non chiamiamola "missione".

La missione è altro. La missione è dire agli altri, qui e oggi, sempre e in ogni parte del mondo, che Dio ci ama e che ha cura dei suoi figli; è ricordare all'uomo di ogni dove e di ogni tempo che l'incontro con Cristo ti sconquassa la vita e ti libera; è ribadire con forza che il Vangelo è più forte e più grande di ogni struttura. È comunicare agli altri con gioia la notizia che noi stessi abbiamo ricevuto, ovvero che la miseria, la fame, la povertà, l'oppressione, la schiavitù, il male, la morte, in definitiva, non è stata eliminata; ma di certo, non ha più l'ultima parola sull'uomo, perché Cristo l'ha vinta con la sua resurrezione.

 

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