TESTO Traccia di comprensione Gen 2,4b-17; Rm 5,12-17; Gv 3,16-21
don Raffaello Ciccone Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza
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III domenica dopo Pentecoste (Anno A) (03/07/2011)
Vangelo: Gen 2,4b-17|Rm 5,12-17|Gv 3,16-21

«16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Lettura del libro della Genesi. 2, 4b-17
L'autore biblico vuole dare una spiegazione agli infiniti interrogativi che ciascuno di noi pone sulla propria vita, sul bene e male, sul progresso, sul lavoro, sulla propria collocazione nel mondo che si trova già fatto e in cui è, però, chiamato ad operare perché le ricchezze e le risorse diffuse possano diventare aiuto, sostegno e soluzione ai propri bisogni e a quelli della umanità a cui si sente profondamente solidale: la vita, l'intelligenza, la concordia, la pace. Ma insieme riscopre fragilità e limiti, mentre incombono la sofferenza e la interminabile tragedia della violenza e quindi della morte. E la spiegazione non avviene attraverso dei "perché" ma attraverso il racconto di un mito che dice a ciascuno di noi ciò che siamo e ciò che va capito. Non è cronaca di un avvenimento avvenuto secoli fa, all'inizio del mondo, ma ciò che avviene nell'umanità ogni giorno.
Siamo stati creati nella bellezza e nello splendore di un mondo che sorge dalle mani di Dio. E in questo mondo il primo regalo è una sorgente che sgorga dalla terra e irriga il suolo. Infatti non c'è ancora né pioggia dal cielo né il lavoro di irrigazione dei campi, esperienza del mondo Egiziano e Babilonese.
Questo mondo ha bisogno di un custode-signore-lavoratore per svolgere lavori e prendersi cura di tutto come di una casa in cui abiteranno la propria famiglia e la propria discendenza.
Il giardino è il modello che il Signore vuole offrire al mondo e all'uomo: bello, ordinato, carico di frutti, splendido per grandi alberi portatori di ombra e di pace.
L'uomo è amministratore di questo giardino e porta in sé la concretezza della terra di cui è fatto e la tenerezza di Dio con cui è plasmato. E, insieme, partecipa alla sapienza di Dio perché il Signore ha soffiato nelle sue narici l'alito di vita, la stessa vita di Dio. Perciò l'uomo e l'umanità, che continueranno ad abitare il giardino, costituiscono un ponte tra la dimensione materiale e visibile della terra e degli esseri viventi che vi abitano, e, insieme, con lo Spirito di Dio presente nella vitalità del suo amore.
Dalla sorgente scorrono quattro fiumi che rappresentano tutta la fecondità per una terra continuamente assetata (siamo nel Medio Oriente). L'autore biblico ritiene di aver individuato i quattro fiumi che scaturiscono dalla fonte e che sono i più importanti allora conosciuti: insieme al Tigri ed Eufrate probabilmente si richiamano il Nilo e il Gange: i grandi fiumi noti in questa cultura. Ma il numero quattro è anche il numero della terra, il richiamo alla totalità dell'acqua che feconda.
Il compito dell'uomo, come cittadino ed abitante insigne di questa realtà nuova, è quello di comportarsi da responsabile: perciò sviluppa le ricchezze che trova ("coltiva") e si preoccupa di non sperperare ma conserva e sviluppa ciò che dovrà servire per coloro che verranno dopo. C'è come uno scambio di doni: l'uomo riceve frutti e ricambia proteggendo e salvando la realtà dall'inquinamento, dalla dissoluzione e dalla desertificazione. E' la responsabilità della salvaguardia del creato. Il giardino è perciò il luogo del lavoro dell'uomo. "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse".
I due verbi usati nel v. 15: "coltivare e custodire", per parlare del lavoro richiamano immediatamente il culto e l'alleanza: sàmar, particolarmente amato dal Deuteronomio, parla del «servire religioso»; càbad è il caratteristico atteggiamento di chi accetta dal partner maggiore la proposta di Alleanza.
"Coltivare" indica la fatica che dissoda il terreno, il secondo l'atteggiamento di chi accoglie un dono e fedelmente lo conserva. Custodire dice la cura che deve accompagnare l'attività dell'uomo, come quando si ha fra le mani un bene prezioso che non appartiene a se stessi. Il mondo è di Dio, non dell'uomo.
I due alberi hanno un loro significato. Uno rappresenta il Signore come dispensatore della vita (dopo il peccato il Signore proibirà di accostarsi a tale albero, difeso da un cherubino, poiché altrimenti l'uomo, mangiando nella disobbedienza, resterebbe eternamente nel male Gn 3,22); e l'altro albero rappresenta la volontà di Dio che è sapiente e pretende l'obbedienza perche l'umanità si mantenga nella linea della fiducia e nella consapevolezza coerente, senza pretendere di diventare arbitro di ciò che è bene e ciò che è male. Nel suo simbolismo occorre limitare la pretesa del desiderio di poter avere tutto: solo se esiste un limite al desiderio di vita che abita ogni uomo, questi può vivere una relazione giusta con il fratello, altrimenti il voler prendere tutto per sé non può che portare alla morte del fratello e, di conseguenza, alla propria morte.
Essere lavoratori responsabili del mondo, essere rispettosi della volontà di Dio, essere sapienti nello sviluppo della vita nel mondo suppongono accettare dei limiti che ti rendono coscienti, comunque, della propria povertà, del proprio bisogno di chiarezza, di rispetto di valori, di capacità di obbedienza. Altrimenti il proprio atteggiamento diventa
drammaticamente pericoloso perché si tramuta nella volontà di poter disporre a piacimento di che cosa è bene e che cosa è male. Il bene e il male seguono una legge che non si può valicare, pena la distruzione della bellezza.
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani. 5, 12-17
S. Paolo, nella lettera ai Romani, dichiara, almeno nella prima parte, la sua fede nella salvezza portata da Gesù. Il mondo (l'umanità) è come diviso in due parti: il mondo antico e pagano e il mondo di Gesù. Il mondo antico ed estraneo a Cristo è costituito sia da pagani senza la legge e sia da Giudei coscienti e conoscitori della legge: questo mondo ha fallito completamente ed ha peccato.
Il mondo di Gesù è invece il mondo della speranza nuova. Infatti, se la realtà antica, ricapitolata in Adamo, va verso la rovina, Gesù, il capofila della Salvezza, porta una tale novità e una tale ricchezza da rendere incomparabile il confronto.
San Paolo ha intenzione di stabilire un parallelo tra l'umanità impoverita e ribelle e Gesù. Seguendo le interpretazioni dei rabbini del suo tempo, che immaginavano Adamo un individuo ben preciso, la contrapposizione fa risaltare ciò che conta agli occhi di Dio.
Dopo il peccato consapevole di Adamo, pensa Paolo, l'umanità non ha più conosciuto la volontà di Dio fino alla rivelazione della Legge del Sinai (situazione ancora presente nelle nazioni pagane dove la legge non è diffusa) e tuttavia il peccato c'era e c'era la morte (vv.13.14).
Secondo la distinzione biblica tra colpe consapevoli e colpe per ignoranza (Num 5,22-16,35), il peccatore, che agisce deliberatamente, deve essere sterminato senza remissione (Num 15,30) mentre la folla, che condivide la colpa per incoscienza o per inavvertenza, può sfuggire alla morte mediante un sacrificio di espiazione per il proprio peccato (Lev 4).
Infatti la vita che viene da Gesù Cristo è più forte della morte che proviene dal peccato.
Tutti, comunque, da Adamo in poi, muoiono fino a quando non è stato offerto il sacrificio per il peccato, presentato da Gesù in croce (Rom. 5,6.8.11). Questi porta la vita in abbondanza per tutti e ‘‘per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti" (v. 19). Egli porta la vita e la vita di Gesù Cristo è più forte della morte che proviene dal peccato.
Lettura del Vangelo secondo Giovanni. 3, 16-21
Una notte Nicodemo decide di andare a parlare con Gesù (Gv3,2-21). La notte, per l'ebreo, è il tempo della preghiera e dello studio. Nicodemo è un personaggio illustre del gran consiglio (sinedrio) di Gerusalemme, maestro in Israele e generoso fedele di Dio che cerca di conoscere la sua volontà e di obbedire.
Gesù lo apprezza e con lui sviluppa una rivelazione tanto profonda quanto difficile poiché apre orizzonti impensabili ad un ebreo del suo tempo.
Già nel testo precedente al brano di oggi, Gesù assomiglia la propria presenza alla salvezza che Dio aveva offerto a Mosé nel deserto, in seguito ad una tragica e orribile invasione nel campo degli Israeliti di serpenti velenosi che portavano alla morte.
Mosé si era sentito ordinare da Dio, dopo le lacrime e le grida angosciose della gente, di costruirsi un serpente di bronzo e di innalzarlo tra le tende. Chi avesse guardato il serpente, in caso di morsi velenosi, avrebbe avuto salva la vita (Num 21,4-9).
Avendo come premessa, non dimentichiamolo, questa immagine strana del serpente di bronzo, conservata, tra l'altro, nel tempio di Gerusalemme, oggi leggiamo la seconda parte del racconto. Dopo l'indicazione che "per vedere il regno di Dio bisogna rinascere dall'alto, per il dono dello Spirito" (vv 2-8), e dopo aver garantito che solo Gesù, Figlio
dell'uomo, l'unico che viene dal cielo, rende possibile la rinascita per quelli che credono in lui (vv 9-15 e qui si parla del serpente di Mosè), a Nicodemo Gesù svela che la propria presenza di Gesù, fondamentale, è il dono di Dio, Padre del Figlio unigenito, capace di portare la garanzia di una universalità. E' l'iniziativa unica e gratuita del Padre "che ama il mondo" (l'umanità nella creazione e la creazione stessa). "Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna" (v3,16).
Questa è l'intuizione più sconvolgente e più profonda di tutta la fede cristiana. Accogliendo questa consapevolezza, si scopre veramente la novità assoluta, tutto l'amore disarmante di Dio, tutta la pienezza e lo splendore di cui ci ha investito l'iniziativa del Signore.
Dio è Amore, sintetizza Giovanni in una sua lettera (cfr 1Gv 4,8-16). La scelta fondamentale dell'uomo è accettare o rifiutare l'amore del Padre che si è rivelato in Cristo.
Questo amore non giudica e non condanna il mondo, ma lo salva: "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui" (v.17).
Il giudizio è un fatto attuale: avviene nel momento in cui l'uomo si incontra con Cristo. Chi crede, aderendo a Gesù, non è giudicato; chi lo rigetta è già giudicato e condannato, per il rifiuto che ha formulato. È come per la vita. Chi desidera vivere deve ovviamente respirare. Chi decide di non respirare più si autodistrugge perché rifiuta volontariamente la vita.
Chi accetta Gesù evita la perdizione e ottiene la vita, chi invece lo rifiuta è già condannato, perché si autoesclude dalla salvezza eterna.
Così Gesù è la luce. Ma davanti alla luce si possono chiudere gli occhi, si possono preferire le tenebre e quindi il risultato è una operosità malvagia (3,19). Il giudizio di condanna avviene nel momento in cui gli uomini rifiutano la luce, preferendo le tenebre. Questo giudizio presente non esclude però il giudizio finale nell'ultimo giorno. E qui ci
viene incontro la riflessione di Matteo che parla di giudizio finale e di Gesù che interpella tutta l'umanità, misurandola su quanto ciascuno ha offerto al povero che aveva fame, sete, bisogno di alloggio e di vestiti, che era in carcere o malato.
"Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare....., Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». Il giudizio si compie ogni giorno in incognito, alla presenza di Gesù. (Matteo 25,31ss).
Giovanni, nella sua sensibilità, approfondisce il nostro rapporto con Gesù: "Operare la verità fa venire alla luce" (v 21).
Ed operare nella verità è prima di tutto e fondamentalmente porre la scelta di Gesù, i suoi criteri, la sua indispensabilità nel mondo, la sua unicità come linea di ricerca dell'orizzonte di Dio.
Matteo declina nei nostri rapporti quotidiani il significato della scelta di Gesù e il significato della fede in Dio: ogni persona va accolta per i bisogni essenziali che ha, affinché si senta amata e viva con fiducia la propria esistenza, consapevole della Provvidenza di Dio.
Questo secondo testo ci richiama un rapporto di attenzione ad una carità laica, aperta a tutti. E infatti tutti si chiederanno il dove di tanti incontri di Gesù: "Quando mai ti abbiamo visto Signore?" (Mt25,37). E Gesù svelerà a ciascuno gli appuntamenti anonimi, a credenti e non credenti, a chi ha avuto il coraggio di tenere gli occhi aperti alla luce e a coloro che li avranno tenuti chiusi.