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TESTO Commento su Giovanni 10,11-18

Monastero Domenicano Matris Domini  

IV Domenica di Pasqua (Anno B) (03/05/2009)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Lectio
Contesto
La pericope della IV domenica di Pasqua è sempre tratta dal capitolo 10 del vangelo di Giovanni e presenta la similitudine del buon (kalòs) pastore. Per l'anno B ci viene proposta la parte centrale (vv. 11-18) in cui la riflessione è puntata proprio sul pastore di cui si mettono in luce due caratteristiche: offre la vita per le sue pecore e le conosce. Il quadro è arricchito dal confronto stabilito tra il rapporto Gesù/pastore e il Padre e tra Gesù/pastore e le sue pecore.
Per la comprensione complessiva è utile situare il testo all'interno della sezione 10,1-21 e nella sua connessione con il capitolo precedente (sul cieco nato). Il seguito del capitolo 10 invece segna una cesura (si passa dal contesto della festa delle capanne, a quello della dedicazione, anche se I. De la Poterie colloca il testo nella più ampia sezione che va da 7,1 a 10,42.
Il brano sul buon pastore ha una prima parte (vv. 1-6) che potremmo chiamare introduttiva (un discorso impersonale sul pastore, le pecore e l'ovile), seguita dai vv. 7-11 in cui Gesù afferma di essere la porta dell'ovile, e dalla nostra pericope (vv. 11-18) in cui dichiara di essere il buon pastore ed è concluso dai vv. 19- 21 che registrano la reazione dei presenti.
Il tema del pastore è di chiara derivazione biblica (più ampiamente negli scritti dell'antico Oriente): sono molti i libri in cui l'immagine è applicata a Dio nei confronti del suo popolo, o ai capi (re, sacerdoti, profeti) che, come pastori e in nome di Dio, si prendono cura di Israele [cfr. per l'A.T. Gn 49,24; Nm 27,17; 2Sam 7,7s; 1Re 22,17; Is 40,11; 44,28; 49,95; Ger 13,1.3; 22,2-3.22s;23,5s; 50,6; Ez 34; Sal 23; 74,1; 78,52s; 77,21; 79,13; 80,2; 95,7; Mic 7,14; Am 3,12; Zc 11,15-17; per il N.T. cfr. Mt 2,6; 9,36; 18,12-14 (la pecora smarrita); 25,32; 26,31; Mc 6,34; Lc 15,4-6; At 20,28; Ef 4,11; Eb 13,20; 1Pt 5,2.4; Ap 2,27; 7,17; 12,5; 19,15; Gv 10,1- 18]. Giovanni dunque rielabora in modo molto personale del materiale tradizionale risalente alla predicazione di Gesù.
Il tema del pastore (cap. 10) e quello della luce (cap. 9) sono connessi tra loro e si riallacciano anche a testi apocrifi (come le Parabole di Enoc dove Israele è paragonato ad un gregge, accecato che riacquista la vista quando il Signore comincia a prendersi cura di lui, a parere di X. Léon-Dufour). I due capitoli in Giovanni sono un lungo discorso sui pastori d'Israele (i suoi capi e sacerdoti) che non hanno saputo prendersi cura di lui e che vengono soppiantati da Gesù, il buon pastore (sul legame dei due capitoli cfr. Gv 10,21).
11 Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la sua vita per le pecore.
Dopo aver parlato dal pastore (Gv 10,2-4) in modo generico al v. 11 Gesù afferma: Io sono il buon pastore (in greco kalòs che significa bello nel senso di buona qualità, rispondete al suo scopo; cfr. Mt 13,8: buona terra, Gv 2,10: vino buono; 1Pt 4,10: buon amministratore, ecc) e rafforza ripetendo subito e poi al v.14 questa definizione.
Osserviamo poi che l'espressione dà la sua vita (in greco títhēmi tèn psykhēn) è ripetuta quattro volte nel nostro brano (vv. 11, 15, 17 18) e risulta così centrale.
In primo luogo notiamo che egli utilizza il verbo títhēmi (che gli è proprio e che compare anche in 13,37s; 15,13; 1Gv 3,16)e non dídōmi usato in genere per indicare la morte redentrice di Gesù (cfr. Mc 10,45: Il Figlio
dell'uomo è venuto per dare la sua vita in redenzione della moltitudine; Lc 22,29: questo è il mio corpo dato per voi; anche Giovanni utilizza dídōmi in 6,51 parlando del dono della sua carne), la scelta nel capitolo 10 quindi è significativa.
L'espressione greca: títhēmi tèn psykhēn significa propriamente rischiare, esporre la propria vita, per difendere altri; la traduzione generica dare la vita utilizzata dai traduttori non significa quindi abbandonarsi alla morte e nella pericope che stiamo analizzando ha delle sfumature nei diversi passaggi del brano, che devono essere rispettate per comprendere il messaggio dell'evangelista.
Anche la scelta dell'avverbio hypér è importante: esso significa a favore di e non implica l'idea della
sostituzione (come in Mc 10,45 dove viene utilizzato il termine antì).
Gesù quindi si presenta come colui che è disposto a rischiare, ad esporre la sua vita per difendere le sue pecore (cfr. 1Sam 17,34; 19,5; 28,21); la figura di Davide è il tipo di Gesù, anche perché messianica, ma tra i due ci sono anche delle importanti differenze (Gesù muore effettivamente per noi e ha il potere di riprendere la sua vita cfr. vv. 17-18).
12 Il mercenario e chi non è pastore, del quale le pecore non sono proprie, scorge venire il lupo e lascia le pecore, e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13 poiché è mercenario e non gli importa delle pecore.
Il confronto con la figura del mercenario conforta questa interpretazione: di fronte alla minaccia (indicata dalla figura del lupo) il mercenario fugge, non è disposto a rischiare la sua vita (confronto anticipato in10, 3b-5).
Notiamo che le pecore sono i credenti e quindi il pericolo non è materiale, ma indica la perdizione, situazione opposta alla vita eterna, il rischio è l'oscurità e la lontananza da Dio e dalla fede, perché il vero pericolo per Giovanni è l'incredulità, che appunto ci esclude dalla salvezza.
14 Io sono il buon pastore e conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me,
Al contrario del mercenario, che non ha nessuna relazione con le pecore, Gesù, il buon pastore, conosce ossia ama i suoi. La relazione tra Gesù e i credenti è di conoscenza, intesa nel senso biblico (e anche proprio di Giovanni), di legame d'amore profondo.
15 come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
Il legame tra Gesù e noi è fondato nella relazione tra Gesù stesso e il Padre suo; con il termine kathos (come) infatti l'evangelista stabilisce una connessione stretta: Dio viene verso di noi nel Figlio suo con un'iniziativa gratuita di amore; in 1Gv 3,16 ritroviamo questa idea: "Da questo oramai noi conosciamo l'amore. Lui, Gesù, ha dato la sua vita per noi".
Nel v. 15 títhēmi tèn psykhēn significa privarsi della propria vita, poiché Giovanni intende definire l'atteggiamento permanente di Gesù nei nostri confronti (le mie pecore), quello che ha caratterizzato tutta la sua missione sulla terra e non solo la sua morte. Si tratta di un senso diverso a quello visto nel v. 11 e che richiama altri passi di Giovanni: 12,24 e 15,13.
16 E ho altre pecore che non sono di questo ovile: anche quelle bisogna che io conduca, e ascolteranno la mia voce, e ci sarà un solo gregge, un solo pastore.
Questo versetto sembra interrompere il discorso, ma in realtà si inserisce perfettamente poiché indica che Gesù non è venuto solo per Israele, ma per tutti i popoli; egli che è l'unico pastore condurrà (attraverso la sua morte e resurrezione) anch'essi alla salvezza, facendo un solo gregge. Questo tema si ricollega al testo di san Paolo di Ef 2,15-16, ma anche alla profezia di Caifa (cfr. Gv11,51s). Questo unico pastore poi realizza la profezia di Ez 37,24 (cfr. 34,23).
Giovanni non utilizza un'immagine spaziale (un solo ovile) poiché l'attenzione è centrata sulle persone e sul loro rapporto con Gesù. In questo testo il tema ecclesiale e quello Cristologico sono strettamente legati, ma la preminenza è data al secondo.
17 Per questo il Padre mi ama, perché io do la mia vita, per prenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie; ma io la do da me stesso. Ho il potere di darla, e ho il potere di riprenderla di nuovo;
La piccola sezione formata dai vv. 17-18 è aperta e chiusa dal Padre, come a indicare che la prospettiva della morte imminente di Gesù si colloca in un orizzonte di libertà reso possibile dalla relazione con il Padre.
Nonostante il clima dell'intero vangelo e i diversi tentativi di uccidere Gesù, la sua morte dipende solo dalla sua volontà e dal suo amore per noi.
Ora l'espressione do la mia vita indica chiaramente la sua morte, ma poiché il testo di Giovanni afferma pure chiaramente il potere di Gesù di riprenderla l'espressione greca va tradotta con deporre. Gesù sta parlando della sua morte vista però nella prospettiva della resurrezione. Questo conferma l'affermazione di Gv 5,26 in cui Gesù dichiara di aver ricevuto dal Padre il potere di dare la vita.
Ancora una volta il vangelo di Giovanni dice che è Gesù che resuscita se stesso, riprende la sua vita; non gli viene ridonata dal Padre (prospettiva dei sinottici e paolina, cfr. At 4,10; Rm 10,91).
Un interessante accostamento è quello con il capitolo 13 dove Gesù depone la veste (13,4.12, dove è utilizzato il verbo títhēmi) all'inizio della cena pasquale con i suoi, testo che hai un rimando simbolico alla pericope che
stiano commentando.
18b questo comando ho ricevuto dal Padre mio.
La volontà del Padre e la necessità della morte di Gesù viene riaffermata dalla conclusione. In apparente contrasto con quanto detto appena prima, questa conclusione riafferma invece l'unità profonda tra il Padre e il Figlio, che subito dopo (10.30) Gesù ripeterà ai presenti: "Io e il Padre siamo una cosa sola".
Per la meditazione
1) Confrontare il testo di Gv 10,11-18 con i passi in cui è utilizzata la stessa figura del pastore (per l'A.T. Gn 49,24; Nm 27,17; 2Sam 7,7s; 1Re 22,17; Is 40,11; 44,28; 49,95; Ger 13,1.3; 22,2-3.22s;23,5s; 50,6; Ez 34; Sal 23; 74,1; 78,52s; 77,21; 79,13; 80,2; 95,7; Mic 7,14; Am 3,12; Zc 11,15-17; per il N.T. cfr. Mt 2,6; 9,36; 18,12-14 (la pecora smarrita); 25,32; 26,31; Mc 6,34; Lc 15,4-6; At 20,28; Ef 4,11; Eb 13,20; 1Pt 5,2.4; Ap 2,27; 7,17; 12,5; 19,15; Gv 10,1-18) per cogliere la continuità e la novità del testo giovanneo.
2) Gesù dà la sua vita: cosa significa questo nel mio rapporto di fede con Gesù, nella mia vita di credente?
3) Come deve essere il mio sguardo di credente sulla vita e sulla morte alla luce del discorso sul buon pastore?
Preghiamo
Salmo Responsoriale ( Salmo 117)
Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nell'uomo.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nei potenti.
Ti rendo grazie, perché mi hai risposto,
perché sei stato la mia salvezza.
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d'angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie,
sei il mio Dio e ti esalto.
Rendete grazie al Signore, perché è buono,

perché il suo amore è per sempre.
Colletta
(orazione propria della IV Domenica di Pasqua, anno B)
O Dio, creatore e Padre, che fai risplendere la gloria del Signore risorto quando nel suo nome è risanata l'infermità della condizione umana, raduna gli uomini dispersi nell'unità di una sola famiglia, perché aderendo a Cristo buon pastore gustino la gioia di essere tuoi figli. Per il nostro Signore...

 

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