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TESTO Cristo crocifisso: Luce e Sale di giustizia

don Alberto Brignoli  

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V Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (06/02/2011)

Vangelo: Mt 5,13-16 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.

14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.

È proprio un robetta insignificante, quasi un po' di polvere fatta pietra e poi di nuovo frantumata in piccoli cristalli, tanto fini da non meritare alcuna considerazione. Eppure, prova a tralasciarlo mentre prepari una vivanda o un piatto ricco di ingredienti: è sufficiente un piccolo assaggio sulla punta di una forchetta per accorgerti che non c'è. E se fai a tempo, vi poni rimedio aggiungendolo prima della cottura; altrimenti - a volte con un po' di vergogna - lo appoggi sul tavolo e dici ai commensali: "Se lo volete aggiungere è lì", magari trovando pure l'escamotage che ti salva in ogni occasione: "Io non lo uso perché in casa abbiamo problemi di pressione alta". Come se la colpa per la tua ipertensione fosse sua o ancor peggio di chi, a tavola, viene obbligato a mangiare insipido. Minuscolo, insignificante agli occhi, di poco valore, calpestabile e quasi banale, tanto ce n'è in natura, eppure se non ci fosse la nostra vita sarebbe diversa, perderebbe gusto e sapore.

Gesù non poteva trovare similitudine migliore di questa (bella quanto quella del lievito e del granello di senapa riferiti al Regno) per definire il cristiano inserito nel mondo: essere "sale". Essere coloro che, nel nascondimento ma nella profonda convinzione della propria identità, sanno di poter dare "sapore" alla realtà nella quale quotidianamente si trovano inseriti. Senza voler esagerare da rendere insopportabile la loro presenza, ma anche senza venir meno alla propria missione, evitando di passare per persone inutili, insulse, insensate, a cui si può far accettare e pensare tutto, e che possono pure essere calpestate senza dire nulla.

Buona parte della società vorrebbe che i cristiani fossero "sale senza sapore" per poter essere "calpestati" e quindi non contaminare con il sapore della loro testimonianza la realtà che li circonda. Non mi riferisco solamente ai cristiani perseguitati in maniera esplicita fino al sacrificio della loro vita. Sto pensando invece a quello che avviene quando si chiede ai cristiani di "tacere", di "avvallare" (se non addirittura di "benedire") tutta una serie di atteggiamenti che i potenti di turno mettono in atto a loro piacere e discrezione in maniera assolutamente arbitraria. E dal momento che i cristiani hanno iscritto nel loro "DNA" l'obbligo morale di denunciare qualsiasi abuso, qualsiasi ingiustizia, qualsiasi atteggiamento di etica pessima o quantomeno dubbia, è giocoforza cercare di zittirli, di "calpestarli", facendo perdere il loro sapore con scelte e giochi in cui i cristiani spesso cadono indulgenti, perché ci vengono "fatti passare" insieme a piccoli privilegi che a noi paiono come segni di stima nei nostri confronti.

Insomma, ci capita spesso di cadere nel subdolo tranello di lasciarci condurre per il naso dai potenti a cambio di qualche favore che spesso confondiamo come opportunità di promozione del bene comune, ma che in realtà sono gli avanzi, le briciole di ciò che per diritto spetta ad ogni uomo. Ecco allora perché non è sufficiente, a detta del Maestro, essere sale della terra attraverso il saporito nascondimento della quotidianità: essere solo sale della terra ci fa correre il rischio di essere non significativi, inutili, perché schiacciati dai giochi dei potenti.

Occorre un'evidenza maggiore, occorre anche un elemento di forza di fronte al quale l'ingiustizia dei potenti venga smascherata. Occorre essere una luce che aiuti ad illuminare le tenebre nelle quali coloro che ritengono di sentirsi i padroni della terra sguazzano e si muovono a loro agio.

Non credo sia corretto interpretare la similitudine di "luce del mondo" (applicata ai cristiani) come affidamento alla Chiesa della conduzione della società in nome di una "illuminazione divina" di cui essa si debba sentire depositaria. La luce del mondo che i cristiani sono chiamati ad essere non può coincidere con un "faro" che guida le sorti dell'umanità, anche perché - non dimentichiamolo - dal Maestro noi siamo chiamati "luce" solo in virtù del fatto che rimaniamo vicini a lui, che è la vera fonte della Luce, come già Giovanni nel prologo del suo Vangelo letto poche domeniche fa indicava parlando del Battista: "Non era lui la luce, ma doveva testimoniare la Luce".

Ora, cosa ci vuole dire oggi Gesù affermando che noi, invece, sì, siamo luce?

Nella Liturgia della Parola di oggi non trovo risposta migliore se non quella di Isaia. Quando il discepolo del Signore potrà far brillare fra le tenebre la luce che è in lui? Quando la sua luce sorgerà come l'aurora? Leggiamo attentamente il testo, e ci accorgeremo di quanta coerenza esista tra la luce che deve brillare nelle tenebre e il sale che non deve essere calpestato dai potenti di turno.

Saremo luce quando divideremo il pane con l'affamato, quando introdurremo in casa i miseri e i senza tetto, quando vestiremo chi è nudo senza trascurare i nostri parenti. E ancora: quando toglieremo di mezzo a noi l'oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, quando apriremo il nostro cuore all'affamato e sazieremo l'afflitto di cuore.

Possiamo dire tutto quello che vogliamo e fare le interpretazioni che riteniamo più consone al nostro modo di intendere il cristianesimo: ma non mi pare di vedere in queste affermazioni di Isaia sull'essere luce alcun richiamo ad atteggiamenti fatti di norme di comportamento, di leggi, di infarcimenti dottrinali, di sermoni moraleggianti o di difesa di privilegi che ribadiscano la nostra identità di credenti in mezzo al mondo.

Essere luce non è indicare la strada agli altri piantandoci al centro di essa come un lampione a cui tutti debbano fare riferimento ascoltando i nostri sermoni, le nostre determinazioni, le nostre categoriche affermazioni. Essere luce significa praticare la giustizia e fare in modo che ad ogni uomo venga fatta giustizia nel rispetto della propria dignità.

In questi quindici giorni di Brasile, in particolare qui nello stato del Maranhao, ritenuto il più impoverito del paese nonostante le sue enorme risorse e ricchezze naturali, ho sentito spesso fare, dai missionari presenti, riflessioni che manifestano un disagio: quello di non riuscire a capire mai bene cosa sia prioritario nell'attività evangelizzatrice della Chiesa, se la catechesi oppure lo sviluppo umanitario, se l'annuncio del Vangelo o l'azione sociale, se i sacramenti o l'attenzione alle povertà di tutti i tipi, in particolare quelle endemiche che creano discriminazione.

Nella Chiesa c'è sempre stato e continua ad esserci chi ribadisce un concetto a scapito di un altro, chi sottolinea più un aspetto che l'altro; e da questo, giungere a delle polarizzazioni intorno a uno dei due ambiti è una deriva facile ma anche poco coerente con il messaggio di Cristo.

Ascoltando la Liturgia della Parola di oggi non ho dubbi, perché sono pienamente convinto che non esiste un annuncio della Buona Notizia di Gesù Cristo fatto di categoriche determinazioni e di liste di norme comportamentali, e nemmeno di formulette da catechismo. Esiste solo l'annuncio della Croce di Cristo, che, come dice Paolo, è un annuncio apparentemente debole nel quale si manifesta la grandezza di Dio.

E a chi è rivolto l'annuncio della Croce di Cristo che salva, se non a coloro che vivono la croce quotidianamente?

I due aspetti, giustamente, non devono mai essere eliminati: ma pensare di annunciare un Vangelo che non parli alla gente dei suoi problemi, delle sue croci, e di come poterle superare, significa tornare a fare il gioco di coloro che non solo spengono continuamente la luce della giustizia, ma vorrebbero addirittura farci perdere il sapore del sale, calpestandolo in terra.

Grazie a Dio, tra i cristiani c'è ancora chi si ribella ai giochi dei potenti e si affida alla sola potenza della Croce di Cristo.

 

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