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TESTO Commento su Luca 17,11-19

Marco Pedron  

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (10/10/2010)

Vangelo: Lc 17,11-19 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il vangelo racconta di dieci guarigioni e di un miracolo: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo riconosce ciò che gli è successo, in uno solo avviene il miracolo. Perché guarire è molto di più che non essere ammalati. Guarire è operare una trasformazione interiore.

Gesù entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. Il libro del Levitico (Lv 13,45) dice: "Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: "Immondo, immondo". Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dall'accampamento". La lebbra, allora, era tremenda sia come malattia sia perché il lebbroso per la società era un morto vivente, non poteva avere più comunicazione sociale con nessuno, era un isolato, un imprigionato. Avere la lebbra era una sentenza di morte lenta. Era il sacerdote che aveva il compito, dopo la guarigione, esaminato il lebbroso, di dichiararlo puro, cioè guarito. Allora il guarito si sottoponeva a tutta una serie di riti e poteva essere reintegrato nella società.

In altre parti del vangelo Gesù tocca e contatta gli uomini e le donne ammalate (cosa notevolmente scandalosa a quel tempo). Qui, però, no. Qui li manda, ancora malati, lebbrosi, dai sacerdoti. Perché? Non poteva guarirli subito? O la loro malattia dipendeva proprio dall'andare dai sacerdoti? Perché ci vanno da ammalati e non da guariti. Chissà cos'avranno pensato quei lebbrosi: "Ma come: siamo malati, impuri e ci mandi dai sacerdoti? Cosa ci faranno se ci vedranno arrivare così?". Ma questi dieci credono alla parola di Gesù, vanno e questa loro fiducia li guarisce.

La fede di questi dieci è che credono di poter guarire, di poter cambiare la loro situazione e così avviene. Se tu non credi in qualcosa di migliore per te, non ti può succedere nulla di migliore. Se tu non credi che Dio ti ama, se dubiti, se sei scettico Dio non può trasformarti. Se tu non credi che puoi guarire, non guarirai.

Molte persone non cambiano la loro vita, le loro malattie, paure, azioni negative perché non credono che possa succedere proprio a loro.

Noi dobbiamo essere onesti con noi e senza che nessuno ci senta chiederci: "Ma io ci credo che posso cambiare, guarire? Ci credo così tanto che sono disposto a soffrire, a mettermi in gioco, a rivoluzionare qualcosa?". E poi ci ascoltiamo. Se ci rispondiamo con verità sapremo se cambieremo o no.
Ma perché Gesù li manda proprio dai sacerdoti?

I sacerdoti rappresentavano la massima autorità del tempo, il giudizio pubblico e sociale: questi dieci, allora, vanno incontro proprio a ciò che temono. Si vergognano della loro condizione, si vergognano di ciò che è capitato a loro, sanno il rifiuto e il giudizio di quelle persone e vanno proprio da loro. La guarigione è centrata sul far recuperare la propria fiducia in sé: "Non dovete nascondervi. Andate proprio da chi avete paura di essere giudicati".

Di fronte all'autorità (genitori, superiori, capo), quando sbaglio una voce dice: "Scappa, nasconditi, vai via". Gesù invece mi dice: "Fuori". "Hai paura di andare? Proprio lì devi andare! Vai e non vergognarti". Che iniezione di fiducia trasmette Gesù! Per forza che questi ci vanno; per forza questi guariscono!

Gesù non dice: "Andate nel tempio a pregare", bensì: "Andate dai sacerdoti". Cioè: "Agisci, fa' proprio quello che hai paura di fare". La preghiera inizia quando mi ritiro con me in silenzio, accolgo e ricevo l'amore di Dio che mi ama incondizionatamente; si trasforma in energia da utilizzare e finisce quando diventa azione. Pregare è agire altrimenti rimane un blaterare inutile.

Se devo affrontare il mio capo o mio marito perché devo chiarire qualcosa o chiudere dei conti in sospeso, pregare è uscire e andare da lui; pregare è agire; pregare è muoversi, andare. Se devo affrontare una mia paura, qualcosa che so che c'è, ma cui non ho voglia di mettere mano, pregare è invece metterci mano, agire, uscire e affrontare proprio ciò che temo. Se devo compiere qualcosa di ardito, di pericoloso, di rischioso, se so che devo osare ma ho paura, pregare è farlo, pregare è uscire e andare incontro proprio a ciò che mi fa paura.

Molte persone hanno un'idea magica della preghiera: "C'è un problema? Prego il Signore". Sì pregare, ma per agire. Gesù mandava, chiamava, metteva in contatto le persone con sé, dava ordini ("Va'; esci; vieni e seguimi"); Gesù, insomma, faceva muovere, faceva agire le persone. Preghiera è agire, muoversi, cambiare, affrontare ciò che ci fa paura e fare ciò che si deve fare.

Guardate molte delle nostre preghiere: "Signore dacci... Signore fa... Signore donaci..." e poi seguono migliaia di cose delle quali dovremo sì vergognarci, perché non è compito di Dio procurarcele ma nostro. Si prega per i poveri, per i sofferenti e per la guerra. (Ed è bene pregare per questo!). Ma queste situazioni dipendono da noi, non da Dio. "Signore elimina le guerre, la violenza...", "Ma perché lo chiedi a Me?".

Questo modo di vivere la fede si chiama materialismo religioso. E' come andare al supermercato, basta chiedere, senza sforzi, e lì c'è tutto, solo che qui si chiedono cose spirituali. I teologi dicono: "La fede non è la vacca dei desideri. A volte siamo come i lattanti che quando hanno fame chiedono la mammella della mamma: siamo un po' infantili. Dio, però, non è il tappabuchi delle nostre mancanze". "Quello che puoi fare tu, Io, Dio, non lo posso fare". Non scaricare le tue responsabilità.

Etty Hillesum, una mistica ebrea, scrive nel suo meraviglioso diario: "Verrà un giorno in cui non noi chiameremo in causa le tue responsabilità, o Dio, chiedendoti: Dov'eri Tu, ma in cui Tu chiamerai in causa le nostre responsabilità chiedendoci: Tu, dov'eri?". Vuoi guarire? Lo vuoi veramente?

Questi sono gli incontri grandi della vita.

Quanta gente non crede in me, non mi da fiducia, mi affossa. Fortuna, benedizione è trovare qualcuno che ti dica, che ti aiuti, che ti faccia vedere che tu puoi essere diverso, un altro, migliore. La grande fortuna della vita è trovare qualcuno che creda in te, che punti su di te, che abbia fiducia in te, che veda il tesoro, la perla che tu stesso non vedi. I grandi incontri della vita sono quelli in cui un uomo ti dice: "Tu puoi guarire. La tua malattia del corpo e dell'anima se ne può andare. Non è vero che tu sei così e che così devi restare sempre. Tu puoi essere diverso. Tu puoi cambiare le sorti della tua vita. Tu lo puoi".

Gesù vedeva nelle persone, nella prostituta, nella peccatrice, nei pubblicani, nei peccatori, nei lebbrosi, cose che altri non vedevano, che loro stessi non vedevano. Gesù, dice spesso il vangelo "li vide". E li vedeva bene, perché se questi ci credevano guarivano; se ci credevano emergevano la forza, l'amore, la guarigione, la ricchezza, che portavano dentro. A volte le persone invece dicono: "Ah padre, che belle parole che dice! Se fosse vero! E' da tanti anni che sono così, ormai! Ormai si è spento tutto; ormai sono esaurito. Troppo tardi. Forse una volta".

Il miracolo avviene se tu credi a Dio, altrimenti Lui non ci può fare niente. Non se lo speri; non se lo vorresti; non se te lo auguri. Ma se ci credi. Perché non accadrà di certo a chi non ci crede. Tu ci credi che puoi essere diverso?

C'è molta gente rassegnata, demotivata: "E' sempre andata così; non si può cambiare; quando sarai grande capirai che le cose non si possono cambiare (chi è educato così come potrà vivere se non che così!)". Le cose forse no, ma io sì. Io posso cambiare. Forse, io non ho potere sul mondo, ma ho potere su di me. Io posso cambiare, se lo voglio posso fare di me qualcosa di diverso. Gesù ai malati, ai lebbrosi, ai sordi, ai ciechi a volte chiedeva: "Vuoi guarire?". Come a dire: "Non so se proprio lo vuoi davvero". E' venuto un ragazzo: "Stare con quegli amici, mi fa male. Dovrei lasciarli". "Bene", dico io. Risponde lui: "Ma ho paura di rimanere da solo"... allora vuoi o non vuoi guarire?

Il termine lebbra per noi oggi designa la malattia di Hansen, la lebbra appunto. Ma il termine ebraico "sara'at" si riferisce ad escrescenze fungose, a vari tipi di muffa', alle infezioni della pelle negli esseri umani in genere come, ad esempio, la psoriasi, l'eczema, la vitiligine. Cioè, quando qui leggiamo lebbra s'intendono tutte le malattie della pelle.

La lebbra è la malattia della pelle. La pelle ricopre tutto il nostro corpo. Ci sono molte espressioni a riguardo della pelle: "Non stare nella propria pelle, uscire dalla pelle; avere la pelle dura; salvare la pelle". La pelle è la nostra vita. La pelle è quell'organo che mette in comunicazione l'interno di noi dall'esterno di noi. La pelle ci difende, ci avvolge, ci protegge dalle ferite e dai pericoli esterni. La pelle è un video in uscita: ciò che viviamo dentro lì si mostra; la pelle è un video in entrata: ciò che viviamo del rapporto con l'esterno lì si rende visibile.
La lebbra di cosa penseranno gli altri ci può immobilizzare.

Una persona si sentiva come questo lebbroso: diventava così rossa in pubblico che le era impossibile provare qualunque sentimento. Per lei era fondamentale sapere cosa gli altri pensassero di lei (e che pensassero bene, naturalmente!). Adesso che ha imparato a vivere un po' anche senza l'approvazione altrui non diviene quasi più rossa.

Una signora ha passato decine di esperti e di centri di cosmetica per "togliere i brufoli". Si sentiva una lebbrosa. Ma nonostante tutto ciò che faceva per rendere più appetibile il suo viso nulla le dava risultava. Poi un giorno fece una scoperta: era lei che si rifiutava, era lei che non stava bene nella sua pelle, che non si sentiva gradevole e il suo viso non faceva nient'altro che esprimere ciò che lei stessa pensava di sé. Era come se il suo viso dicesse: "Non avvicinatevi, non sono bella; statemi lontano: non vedete?". I brufoli sono spariti da quando ha iniziato ad amarsi.

Un uomo soffriva di psoriasi. Era un uomo molto sensibile ma molto duro con sé; aveva un gran bisogno d'amore, di affetto e di contatto, ma non si poteva permettere tutto questo. Si era costruito una corazza che lo proteggeva ma anche lo isolava da tutto. Si vergognava di aver bisogno d'amore e per questo si autoaccusava e si sentiva obbligato, invece, a soddisfare le esigenze degli altri e non le sue. La sua pelle diceva: "Mi vergogno di quello che provo e che ho dentro". Ha imparato ad esprimere, a non vergognarsi, ad accettare di aver bisogno, come tutti gli esseri umani, di calore e d'amore. E' quasi guarito.

Io ho bisogno di stare bene nella mia pelle, di volermi bene.

Ho bisogno di non vergognarmi di ciò che sono, di ciò che provo e di ciò che vivo. Ho bisogno di guardarmi allo specchio e di amare ciò che vedo. Ho bisogno di accarezzarmi, di accogliermi; ho bisogno che tu mi tocchi teneramente, con dolcezza, con sensibilità e con amore in modo che la tua mano tocchi il mio cuore. Ho bisogno di non essere troppo duro e severo con me: "Essere sempre efficiente, non sbagliare mai, sempre disponibile, trascurarmi per farmi in quattro per gli altri, non curarmi del mio aspetto fisico". Ho bisogno di dormire, di piacermi, di essere gradevole agli altri (non più né di meno degli altri). Ho bisogno di nutrire con cibi sani il mio corpo. Ho bisogno di essere contento di me, di smettere di essere disgustato del mio fisico, di farmi schifo. Ho bisogno di volermi bene, di essere strumento dell'Amore di Dio per il mio corpo e la mia pelle (è così facile a volte parlare dell'amore di Dio a vanvera!). Altrimenti la mia pelle soffre; altrimenti io soffro; altrimenti mi sento un lebbroso che nessuno può incontrare.

Un giorno una donna mi disse: "Lo sa padre perché io aiuto tutti? Perché credo che nessuno mi voglia. E siccome ho paura che nessuno venga da me vado io da loro". Questo significa andare dai sacerdoti e mostrarsi: bisogna tornare a credere in sé, alla propria purezza, alla propria innocenza: "Sì, tu non ti devi più vergognare; non ti devi nascondere, tenerti lontano, che nessuno sappia cos'hai fatto o cos'hai dentro; tu puoi vivere; tu puoi ritrovare il coraggio di star bene in questa tua vita, in questa tua pelle".

La lebbra era la malattia dell'esclusione. La lebbra è un marchio indelebile che tu ti senti addosso. Chi aveva la lebbra doveva andare in giro con un sonaglio e suonarlo così nessuno si avvicinava. Come se uno che oggi ha l'aids dovesse girare con un campanello: tutti saprebbero. Vi pensate la vergogna! Per fortuna nessuno oggi va in giro così; ma molte persone, anche senza campanello, si sentono così. Sentono di essere tagliate fuori dalla società; sentono che la loro vita, pur vivendo, è finita. Il grande miracolo è tornare a sentirsi degni, inclusi, partecipi dopo essersi ritenuti per sempre esclusi.

Un ragazzo ha detto: "Mio padre ha rubato. Ora è in prigione. Mi vergogno anche di uscire di casa". Un altro: "Mio padre beve. Lo sanno tutti. Mi vergogno così tanto". Una donna: "Padre, io ho abortito. Non potrò mai perdonarmi. Non so se potrò essere un giorno madre". Un ragazzino di colore una volta mi ha detto: "Mi vergogno di essere nero". Ecco la lebbra.

Quante volte c'è qualcosa che ci succede, che si sa in giro e noi non vorremmo neppure uscire di casa; vorremmo sparire, vorremmo cambiar faccia (perché secondo noi l'abbiamo persa!). Oppure quando facciamo certi errori ci pare di aver perso la faccia. Sentiamo che abbiamo perso la nostra dignità, sentiamo che è irrecuperabile, sentiamo di aver addosso una malattia per sempre: l'onta, l'infamia. Ma Gesù ci invia dai sacerdoti e ci dice: "Non permettere mai che la vergogna, che il giudizio degli altri ti uccidano, ti impediscano di vivere. Ritrova la fiducia in te e abbi il coraggio di mostrare la tua faccia, di mostrare quello che sei. Fatti vedere, non nasconderti".

Le persone, a volte, vorrebbero essere invisibili. Ma Gesù mi dice: "Fuori! Mostrati! Non ti vergognare mai della tua pelle!". E mi serve una grande fede per seguirlo.

Poi c'è la seconda parte del vangelo. Tutti guariscono ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? E gli altri dove sono? Il vangelo dice che "uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro". E' quel "vedendosi" che è decisivo. Uno di loro si accorge di ciò che gli è successo: se ne avvede, riconosce la fortuna, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è successo. E gli altri? Degli altri non è detto che hanno visto.

Gesù comanda agli altri nove di andare dai sacerdoti: ci vanno, eseguono l'ordine e sono a posto. E' la religione del "io ti do e tu mi dai". Tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non sono stati toccati nel profondo. Sono stati guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Pensano: "La guarigione l'abbiamo avuta, abbiamo fatto ciò che ci ha detto. Che altro c'è da fare?". Questi nove sono stati guariti ma non hanno visto Dio. Non c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento, perché avevano sete, hanno ricevuto il bicchiere d'acqua e si sono accontentati. Non sono andati alla sorgente, alla fonte, alla forza che li aveva guariti.

A Gesù le persone chiedevano sempre segni e miracoli; ma volevano tutto a basso prezzo, senza fatica, senza porsi domande. Volevano un pacco dono dal cielo ma non convertirsi, cambiare, crescere, riconoscere che Lui è la Vita e farlo entrare dentro la propria vita.

Quante persone ottengono quello che vogliono - e pregano, pregano tanto - ma poi, ottenutolo, tutto continua come prima. Quello che succede loro non li cambia, non li tocca. Rimangono nella superficie e tutto è come prima. E continueranno a chiedere e si arrabbieranno quando non arriverà ciò che chiedono, come se fosse un diritto. E insistono nel chiedere non per fede, ma per piegare Dio come se Dio dovesse qualcosa a loro. Per cui vivranno senza lode, senza canto, senza gioia e festa nella loro vita, senza gratitudine, nella meschinità del tutto è dovuto: "Io prego, io faccio, io mi impegno e tu (Dio, Vita) mi dai". Ricordo un'amica di famiglia, mai andata in chiesa, che per ottenere una "grazia" (diceva lei, in realtà era solo per paura!) fece la novena dei primi nove venerdì del mese. Lei andò a messa addirittura tutti i venerdì e non ne saltò uno per nove mesi! Ottenutala non andò mai più in chiesa.

Il ringraziamento del samaritano è il segno che ha capito, ha colto che non gli era dovuto. "Non ti è dovuto niente - ricordatelo - per cui ringrazia e benedici per tutto quello che hai". Solo il samaritano torna indietro e non può che essere una nota polemica del vangelo, poiché i samaritani erano considerati gente depravata dai religiosi Giudei. Ma proprio i nove religiosi (non è detto ma è supposto dal vangelo) non torneranno indietro, mentre tornerà solo l'eretico, lo straniero samaritano.

Il verbo "rendere gloria" in greco è "eucarestia", ringraziare.

Rendere grazie vuol dire accorgersi di ciò che ci succede, che ci capita e che avviene in noi e attorno a noi. Le persone pensano che tutto sia dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, esorbitanti nei confronti degli altri, dei figli e di se stessi: non bastano mai. I nove lebbrosi avevano avuto una cosa grandissima, ma non se ne erano resi conto, era come se non l'avessero avuta!

L'eucarestia della domenica dovrebbe essere questo ringraziare Dio per la sua presenza nella nostra settimana. Le nostre eucaristie, invece, sono a volte senz'anima, rischiano di essere un precetto, un'osservanza, senza festa, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria amministrazione, un inno all'indifferenza: non vediamo, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio, non sappiamo vedere cosa fa per noi, non c'è sussulto nel nostro esserci.

L'egocentrismo delle persone si manifesta nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non ricevono mai abbastanza; sono sempre fissati su ciò che li manca, su ciò che non hanno; la società e gli altri sono sempre colpevoli di non dargli qualcosa; chi è vicino non li ama mai abbastanza; fanno richieste e pretese sempre più alte. Il miracolo è rendersi conto, percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto.

Rin-graziare, grazia, gratitudine vengono dalla stessa parola: gratis. Tutto ciò che abbiamo e siamo è gratis. Non ce lo meritiamo e non ci è dovuto: è un dono, godilo e ringrazia.

I tuoi figli non sono tuoi, sono un dono. Allora, guardali, gustali, giocaci insieme, benedici l'Altissimo per questo immenso dono che ti è stato fatto; loda Iddio perché ha scelto te per amarli e divertiti con loro, ridi e abbracciali, ma non sono tuoi. Vivi questa bellezza che ti è stata donata gratis e ringrazia in ogni istante perché nulla per quanto tu faccia potrà ricambiare il dono che hai ricevuto. E ogni mattina ricordati: "Gratuitamente ti sono stati dati e gratuitamente amali". Perché li hai avuti? Così... per amore.

L'amore non ti è dovuto: è un dono. Ringrazia, vivi le gioie e i piaceri dell'amore, stupisciti e canta se l'amore ti riempie la vita; ringrazia ogni giorno Iddio che ti fa vivere e percepire l'esperienza più forte e più profonda della vita, benedici per ciò che ti è stato dato di vivere e sii grato perché non c'è uomo che possa meritarsi tutto questo. E' un regalo: vivilo, sii grato e non attaccarti ad esso. Perché ti è capitato? Così... per amore.

La vita non ti è dovuta: è un dono, godila. Godi del sole che ti riscalda, della strada su cui cammini, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che pulsa e del cuore che batte in te; godi che sei vivo, che puoi parlare, puoi esprimerti, che puoi piangere. Benedici per gli amici, per le occasioni che hai, per le possibilità che ti ritrovi. Tutto questo è gratis, per te. Benedici perché non ti è dovuto. Tutto avviene così... per amore.

Ad ogni secondo il tuo cervello immagazzina milioni di informazioni, miliardi di cellule compiono il loro lavoro e il loro compito scrupolosamente e questa meraviglia perfetta avviene in ogni istante. Immagina che tutti gli uomini che esistono lavorino sincronicamente per un unico scopo: che tu esista. Questo è il tuo corpo; le tue cellule sono tutti quegli uomini che lavorano per te; tu sei questo. Ma ti rendi conto di quale perfezione tu sei? Ti rendi conto di che mistero ti abita? Come non vedere l'amore di Dio in tutte queste creature che lavorano per me? Me lo merito? Ne sono degno? Perché dovrebbero farlo? Perché non fanno sciopero? Non è tutto infinitamente gratuito? Non vi sentite teneramente amati? Non avviene tutto così... per amore?

L'universo intero si regola su leggi ferree per cui la sola alterazione di qualche legge fisica, anche minimale, farebbe collassare tutto: non è un miracolo tutto ciò! Tutto vuole che tu esista! Tutto vuole che tu ci sia!

Solo menti ottuse senza cuore, totalmente irrigidite e senza vita, non sanno lasciarsi contagiare dallo stupore e dalla meraviglia di questo fremito così fragile e così perfetto che si chiama vita. La mia vita è un capolavoro e solo un uomo senza cuore non può commuoversi e inchinarsi a tale bellezza. Solo menti cieche non sanno vedere in quale miracolo sono immersi. Solo menti ignoranti non conoscono, ignorano la perfezione e la bellezza che li abita.

Chi non ringrazia non conosce Dio. Può bene-dire solo l'uomo che si rende conto di essere parte di un mistero molto più grande, che lo valica, che lo supera, che lo sorpassa e in cui vi è immerso.

Sono molto preoccupato dalle persone che non cantano in chiesa: non cantare, non benedire, (e che importa se si è s-tonati!) è non volersi lasciare coinvolgere, è non voler dar voce a ciò che si ha dentro e la preghiera, l'invocazione, la supplica a Dio più che con le parole si rivolgono con il canto, con le urla, con le grida, perché pregare non è dire parole ma dar voce a ciò che abbiamo dentro, alle nostre emozioni, alla vita che c'è in noi e che vuole essere liberata.

Benedico ed elevo a Dio il mio grazie e il mio canto non perché sono cieco e non vedo tutto il male, l'ingiustizia, il sopruso che ci sono nel mondo e intorno a me (e a volte dentro di me), ma perché guardando alla bellezza che mi circonda pur in mezzo a tante crudeltà, guardando alla meraviglia in cui sono immerso pur in mezzo a tante cose incomprensibili, guardando alla bellezza della vita pur in mezzo alla sua parzialità ne scopro i lineamenti della totalità. Nouwen dice: "Non si costruiscono i conventi per risolvere i problemi ma per lodare Dio in mezzo ad essi".

Lodare (dal greco aineo) vuol dire "assentire, approvare, dire di sì, essere contento". Lodo la vita non perché tutto sia roseo ma perché le dico di "sì", perché la accolgo così com'è, perché cerco di viverla per com'è, perché sento che ha un valore inestimabile, enorme.

Dobbiamo sempre dif-fidare da chi non si sa stupire, da chi non si sa meravigliare, da chi non sa congiungere le proprie mani ed elevare canti all'Altissimo per tutto ciò che vive, perché uno così manca di sensibilità. Cioè: non sente il miracolo che gli è stato fatto. E se non senti il miracolo che ti è stato concesso non potrai percepire la preziosità di questa tua vita e rischierai di buttarla via, di venderla.

Le persone credono che lodare sia sorridere ed essere sempre felici. Ma lodare non è sorridere sempre come gli stolti; lodare è dire di "sì" alla propria vita, sentire che c'è un progetto, una direzione, che c'è un motivo per cui le cose succedono, che non capitano per caso; che c'è un motivo per cui io ci sono.

Lodare è rimanere fedeli a ciò che sì è: non rifiutarsi, non lasciarsi soli, dirsi di sì. Lodare è essere fedeli ad ogni sentimento, esprimerlo, cantarlo e dargli voce anche si tratta di grida, di urla di rabbia o di disperazione; lodare è essere fedeli allo stupore e all'incanto della vita e alla sua drammaticità. Lodare è sentire in te e rivolgerlo a Lui il grido del fratello che soffre, che è disperato, che nel silenzio urla contro una vita che non gli piace; è piangere e lasciare scorrere le proprie lacrime di fronte all'impotenza di non poter fare niente; è permettersi di commuoversi e lasciarsi riempire dalla felicità fino a scoppiare, fino a sentirsi così pieni e ricchi da urlare di felicità; è non decidere noi cosa è bene e cosa è male per la nostra vita, ma dirle di sì. Lodare è essere fedeli a Dio, dirgli di "sì" anche quando non capisco: e allora Gli esprimo la mia confusione e la mia disperazione, ma canto anche il mio essere nelle Sue mani e che tutto andrà bene. Lodare è essere fedeli a Dio che è Padre, che è buono, e mi impedisce di fossilizzarmi solo sul negativo, solo su ciò che non va bene, solo su ciò che è parziale, limitato o insufficiente; lodo perché vedo oltre, perché vedo che potrà essere anche se oggi non lo è (e a volte mai lo sarà su questa terra), lodo perché vedo con gli occhi del Creatore.

Lodare è esserci "al cento per cento", sempre, in ogni momento, nei miei momenti migliori e nei miei momenti peggiori perché la vita è sempre vita in ogni istante, in ogni momento, in ogni parte, in ogni situazione.

Fare della propria vita una lode non vuol dire avere sempre un sorriso stampato in faccia (indice di grande falsità) ma dire di sì, accogliere e dar voce a tutti gli istanti della mia vita. Una vita di lode è una vita di chi c'è al cento per cento, di chi non si sottrae a nulla, di chi dà voce a ciò che vive ed eleva a Dio il suo profondo sia quando si sente avvolto dall'Infinitamente Grande, che scorge nell'infinitamente piccolo della vita, sia quando si sente perso, abbandonato dall'Infinitamente Grande nelle infinitamente piccole vicende quotidiane.

Pensiero della Settimana
"La vita con tutti i suoi segreti mi è nuovamente accanto,
come se la potessi toccare.
Ho la sensazione di riposare sul suo petto nudo,
di sentire il battito regolare e leggero del suo cuore.

Sono fra le braccia della vita e ci sto così sicura e così protetta.
Penso: com'è strano. C'è la guerra.
Ci sono i campi di concentramento.
Piccole barbarie si accumulano di giorno in giorno.

Camminando per le strade, io so che in quella casa c'è un figlio in prigione, in quell'altra un padre preso in ostaggio,
o un figlio diciottenne condannato a morte.
E questo capita a due passi da casa mia.

So quanta la gente è agitata, conosco il grande dolore umano che si accumula e si accumula, la persecuzione e l'oppressione,

l'odio impotente e il sadismo: so che tutte queste cose esistono,

e continuo a guardar bene in faccia ogni pezzetto di realtà nemica.

Eppure, in un momento di abbandono, io mi ritrovo sul petto nudo della vita e le sue braccia mi circondano così dolci e protettive,

e il battito del suo cuore non so ancora descriverlo: così lento e
regolare e così dolce, quasi smorzato, ma così fedele, come

se non dovesse arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso.
Io sento la vita in questo modo, né credo che una guerra,

o altre insensate barbarie umane, potranno mai cambiarvi qualcosa.

... Guardo la vita in mezzo a tutto questo orrore che mi circonda:
eppure è così bella la vita, così perfetta la vita.
...Non ci posso far niente io sento così:

meravigliosamente bella questa vita e questa mia vita".

(Dal Diario 1941-1943 di Etty Hillesum, Adelphi)

 

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