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TESTO Missione ed evangelizzazione: comunicare una fede "inutile"

don Alberto Brignoli  

XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (03/10/2010)

Vangelo: Lc 17,5-10 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 5gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Sono consapevole del fatto che il mio commento alla Liturgia della Parola di questa domenica potrà sembrare una forzatura poco pertinente nell'interpretazione di quanto i testi ci propongono. Ma è mio intento cercare di dare un taglio che parli di evangelizzazione, e quindi di un tema a me molto caro, quello della missione, che lungo questo mese di ottobre sarà spesso presente nelle nostre riflessioni.

Se dunque le due domeniche precedenti, in maniera netta e forte, hanno messo in guardia il discepolo dal reale pericolo che l'accumulo delle ricchezze porta con sé, mi pare che il Vangelo di questa domenica ci possa aiutare a prendere le distanze pure da un altro pericolo insito nella vita di fede, o meglio nella religiosità, che è quello dell'ostentazione di un potere personale in nome della fede. E lo leggo prendendo spunto da due affermazioni del Vangelo: il grido di richiesta dei discepoli al Maestro ("Accresci in noi la fede!") e la sentenza finale di Gesù riguardo alla nostra relazione con "le cose di Dio" ("Siamo servi inutili").

Nel rapporto tra questa richiesta e la dichiarazione di "inutilità" dei nostri atteggiamenti religiosi credo di poter leggere un'indicazione interessante quanto sconvolgente da parte di Gesù: la fede è qualcosa di "inutile". Non nel senso che non serva a nulla o che sia insignificante per la nostra vita, ma nel senso che non è qualcosa che - erroneamente valutato con parametri economici - crea "utilità", che permette di "guadagnare" qualcosa, o che punta a dare un plusvalore a ciò che facciamo.

Perché la fede, per quanto potente possa essere da giungere a smuovere le montagne, non si misura in termini di "resa", di "utilità", di "profitto" o ancor peggio di tornaconto, ma di totale gratuità, perché è un dono di Dio che va accolto, seminato e coltivato dentro di noi. Proprio come un seme. E per di più, come un minuscolo seme di senapa (per usare la similitudine di Gesù nel Vangelo), ossia come qualcosa di insignificante agli occhi di chi cerca in essa un segno forte, evidente, da sbandierare in faccia a chi non crede o ancor peggio utilizzato da noi per rivendicare a Dio le nostre buone opere, che lui deve sentirsi obbligato a valorizzare, esaltare e ricompensare.

Perché in realtà, come umili ed inutili servi, qualora anche avessimo una fede e una serie di opere corrispondenti capaci di smuovere le montagne, non potremmo mai avanzare pretese nei confronti di Dio, perché qualsiasi cosa facciamo di buono, Dio non è certo obbligato a ricompensarci: non abbiamo fatto altro che il nostro dovere. La potenza della fede che si manifesta in noi non è certo manifestata dalle grandi o piccole opere che riusciamo a compiere, ma dalla Grazia di Dio che si manifesta in noi.

Sono passati 16 secoli da quando Sant'Agostino discuteva di queste cose con il fuorviato teologo Pelagio: eppure la storia del cristianesimo non è mai stata scevra da questo pericolo di contaminazione della fede, ritenuta un insieme di buone opere da spiattellare in faccia a Dio per dimostrargli la nostra bontà. Ancor peggio, quando la fede, entrando nei palazzi del potere e confondendosi quasi automaticamente e totalmente con una religione, è stata utilizzata per ribadire concetti di assolutezza, di dominio e di potere: come se, appunto, Dio fosse nelle mani dell'uomo e dovesse rispondere a ciò che l'uomo vuole da lui.

Sarà perché in questi giorni, nel centro di formazione missionaria dove svolgo il mio ministero, abbiamo avuto modo di avvicinarci, con i corsisti in partenza per la missione, alla storia dell'evangelizzazione nel sud del mondo e quindi anche allo svolgersi storico della missione universale della Chiesa: ma con frequenza mi pongo degli interrogativi e di conseguenza dei dubbi sull'adeguatezza delle modalità con cui l'annuncio del Vangelo e la vita di fede ad esso conseguente è stato proposto alle popolazioni che ancora non lo conoscevano: soprattutto in determinati periodi storici, come quelli contemporanei e immediatamente successivi alla Controriforma e al Concilio di Trento, e in determinate contingenze storiche, come quando la Chiesa riteneva di maggior utilità alla propagazione della fede il connubio con il potere politico di turno.

L'intreccio "fede - religione - potere politico" da sempre presente nella storia del cristianesimo sa tanto di imposizione, di pressione, di pretese avanzate - in nome della fede - nei confronti dell'uomo e di Dio stesso che fossero "utili" al conseguimento e al mantenimento di un potere che di spirituale e di cristiano non ha proprio nulla. E meno male che Gesù ci ha parlato da sempre di una fede gratuita, "inutile"! Per di più, pensare con ingenuità che questi atteggiamenti e questi pericolosi connubi siano legati a determinate epoche storiche che oggi non destano più preoccupazione significa commettere un grave errore storico, ma soprattutto significa non conoscere la realtà nella quale viviamo.

Sapeste quanta opera di evangelizzazione e di missione anche oggi continua con questo stile di "imposizione" della fede, di "salvare il salvabile", di proposta "forte" nel senso "opprimente" del termine, di voler ribadire e mostrare una fede e una religione ancora potente e capace di smuovere le montagne più inamovibili della laicità e dell'ateismo in nome proprio di una fede ritenuta appannaggio di gruppi di cristiani forti, che a mio avviso ragionano (loro sì) con la fede in termini di "utilità"...

Quante idee di missione ancora legate alla "implantatio Ecclesiae", ovvero all'instaurazione della Chiesa in luoghi dove ancora è assente o minoritaria, senza il minimo sforzo di inculturazione e di dialogo con la realtà locale e contemporanea, certamente secolarizzata e globalizzata, ma non per questo da demonizzare! Quanta incapacità a leggere i segni dei tempi per poter annunciare il Vangelo in un mondo che cambia, all'interno di un cambiamento epocale, senza la necessità di portare avanti nuove crociate contro gli "infedeli" di turno, ma portando avanti il dialogo interculturale e interreligioso come forma privilegiata di propagazione della fede!

Se tutti quanti nella Chiesa sapessimo vedere la missione come opportunità di dialogo tra le culture invece che come imposizione del Vangelo, come cooperazione tra le Chiese invece che come sussidiarietà di fronte alla scarsità di clero, come scambio di esperienze di fede invece che come indottrinamento ecclesiale in nome della preservazione della tradizione, sono certo che ne andrebbe a beneficio di tutta l'attività di evangelizzazione.

Perché - e la storia ce lo dimostra - il Vangelo non si è diffuso nel mondo attraverso atteggiamenti che il profeta Abacuc definisce nella prima lettura come "violenti", "ingiusti", e "di rapina" (frequenti, purtroppo, quando la religione cristiana entra nei palazzi del potere), ma attraverso ciò che Paolo indica a Timoteo come gli atteggiamenti che il cristiano deve avere per dirsi testimone autentico del Vangelo: "forza", "prudenza", ma soprattutto "carità".

 

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