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TESTO Perché vuoi soffrire così tanto...

Marco Pedron  

Ascensione del Signore (Anno C) (16/05/2010)

Vangelo: Lc 24,46-53 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 24,46-53

46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».

50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Oggi la chiesa celebra la festa dell'Ascensione: Gesù lascia definitivamente questa terra e se ne va al cielo. Chi ci rimane quaggiù? Noi! Lui non c'è più ma ci siamo noi. Noi siamo i nuovi Gesù.

Per molto tempo (fino al V secolo) questa festa non esisteva: vi era un'unica grande festa, la Pasqua. Successivamente, della Pasqua si sono sottolineati i tre aspetti: la resurrezione (Pasqua), la salita al cielo di Gesù (Ascensione) e la discesa dello Spirito (Pentecoste). Ma questi tre aspetti sono un unico evento. Gesù è risorto (Pasqua); nel momento esatto in cui è risorto era in Dio (Ascensione); rimane presente in noi e su questa terra con il suo Spirito (Pentecoste).

La grande domanda che si ponevano i primi cristiani era: dov'è Gesù? E sotto quale condizione? L'Ascensione risponde a questa domanda: "Gesù è in Dio (cielo) ed è nel suo massimo splendore (gloria)".

Se noi guardiamo i vangeli troviamo che in Gv e in Mt non c'è ascensione: Gesù nell'attimo esatto in cui muore è in Dio. Mc dipende da Lc e per Paolo, nelle sue lettere, resurrezione significava essere già in Dio.

Lo stesso Lc, l'unico che descrive veramente l'ascensione (in Lc 24,50-53, vangelo di oggi e in At 1,6-11, prima lettura di oggi), lo fa in maniera diversa: nel vangelo avviene subito dopo la morte di Gesù, nello stesso giorno della resurrezione, mentre negli Atti avviene quaranta giorni dopo.

Perché quaranta giorni? Perché agli apostoli è servito un po' di tempo (quaranta è il tempo simbolico del passaggio, della trasformazione, del cambiamento che avviene) per rendersi conto e accettare la nuova realtà: Lui non c'era più, adesso c'erano loro.

Cosa voleva comunicarci, allora, Lc con questo racconto? Lc descrive con delle immagini l'esperienza e la consapevolezza che gli apostoli avevano raggiunto nel tempo. E' un po' come quando incontri la donna della tua vita. All'inizio la conosci, ti frequenti, ti innamori, ma non ti rendi conto di quello che succede. Solo successivamente puoi dire che è "stata mandata dal cielo, dal destino". E' una consapevolezza che ti arriva dopo.

Ad una donna è stata diagnosticata un'artrite reumatoide. I medici le hanno detto: "Guardi, è meglio che si abitui all'idea che lentamente il suo corpo non potrà fare più quello che fa oggi". Un dramma! Eppure questo fatto l'ha messa in cammino, l'ha fatta più malleabile, molle, ha rimesso in gioco la sua vita, si è guardata dentro, è andata in terapia e ora ne è uscita completamente guarita. Oggi guarda indietro e dice: "Dio mi ha dato una sberla perché mi svegliassi".

Un ragazzo ha fatto il cammino di Santiago. All'inizio lo ha fatto per caso, potremmo dire quasi per sbaglio. Ma quel cammino, quel viaggiare a piedi, da solo, lo ha completamente trasformato. Adesso, guardando indietro dice: "E' stato Dio a condurmi lì". Lo può dire solo adesso che comprende il senso di ciò che è successo.

Finché siamo dentro ad una cosa non ne capiamo il senso. Dobbiamo solo fidarci. Quando poi ne siamo fuori, allora ne emerge chiaro anche il significato.

Lc, allora, con questo racconto e con queste immagini racconta la consapevolezza che gli apostoli avevano raggiunto. E lo fa all'orientale.

Noi occidentali avremo fatto un discorso. Ma un orientale, che ha una mentalità più concreta, tattile, lo esprime con un racconto, un disegno del cuore.

Tutti i grandi personaggi del tempo non erano morti, ma erano saliti al cielo. Così Romolo, Eracle, Empedocle, Alessandro Magno, Elia, Enoch. Non che non fossero morti, ma era un modo per dire: questo uomo è stato così grande che verrà ricordato sempre, che non morirà mai. E quando questi grandi personaggi se ne andavano, prima di lasciare i loro discepoli, rivolgevano loro alcune parole.

Gesù è il più grande di tutti; Gesù più di tutti è vivo. Così Gesù si rivolge ai suoi discepoli prima di andarsene. Con questo racconto si vuole sottolineare che veramente Gesù è stato il Figlio di Dio, il più grande di tutti.

Se noi poi guardiamo il vangelo di Lc non troviamo mai che Gesù abbia benedetto i suoi discepoli. E non troviamo mai che era stato adorato da loro. Cosa vogliono dire questi gesti in questo preciso momento?

Gesù era stato investito al Giordano quando il cielo si era aperto, lo spirito era disceso su di lui sotto forma di colomba e una voce dal cielo gli aveva detto: "Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Lc 3,21-22).

Adesso è lo stesso Gesù che investe, che dà l'autorità agli apostoli: è la loro consacrazione.

Alza le mani: attinge la forza dall'alto, dalla Sorgente dal luogo dove Lui sta per andare.

Benedice gli apostoli: trasmette loro la sua forza, che da Lui passa a loro.

Gli apostoli lo adorano: ricevono il potere e riconosco, inginocchiandosi, che Lui è sempre il loro capo, signore.

Poi gli apostoli tornano a Gerusalemme per ricevere lo Spirito, l'abilitazione. Con l'ascensione sono stati nominati nel loro incarico; con la Pentecoste ne hanno preso possesso con tutte le facoltà, l'autorità e il potere conseguente.

Ciò che Lc vuol dire è molto semplice: Gesù adesso non c'è più, ci siete voi.

La chiesa non deve più guardare al cielo (At 1,11), ma deve darsi da fare. Lui non c'è più, ci siamo noi.

E' la stessa cosa del problema rifiuti di Napoli (ma di tanti altri comuni e di tanti altri problemi). Ci sono questi rifiuti, li produciamo noi. Dove vuoi che li mettiamo? Se li produciamo noi è "responsabile" smaltirli e tenerli noi, non vi pare? Perché doverli portare altrove? Perché chiedere che ci pensi lo stato? Sono nostri, ci siamo noi, tocca a noi trovare una soluzione.

Il comitato di Serre per bloccare la discarica, blocca le strade e il treno. D'altronde nella zona ci sono 15.000 aziende agricole e un parco naturale. Il governo a sua volte dice: "Bisogna trovare una soluzione veloce perché si sta facendo molto casino" e manda soldati e polizia per imporre l'ordine. Colluttazione: venti tra contusi e feriti, tre ricoverati in ospedale.

Così ognuno scarica (e in questa situazione lo si può ben dire!) la colpa e le responsabilità sugli altri. "Gli abitanti non ci aiutano!", dice il governo. "Il governo non ci aiuta", dicono gli abitanti.

Dio se ne è andato, è asceso al cielo. Adesso ci siamo noi. Tocca a noi, a me, e non agli altri trovare le soluzioni ai nostri problemi. Non chiederti per chi suona la campana: la campana suona per te.

Ci sono migliaia di "discariche": si vomita addosso agli altri i nostri problemi. Ma sono i nostri problemi e dobbiamo lavorare per trovare noi le nostre soluzioni. Senza scaricare sugli altri tutto ciò che è nostro.

Gesù non c'è più ma c'è l'hanno nel cuore, dentro. Per questo stanno sempre nel tempio lodando Dio. Non è che stessero giorno e notte nel tempio: "stare nel tempio" vuol dire che dovunque andassero erano in contatto con Lui, lo sentivano, lo percepivano.

Il vangelo di Lc si distende tra due scene di persone al tempio. All'inizio (1,8) è Zaccaria al tempio. Alla fine sono gli apostoli che sono al tempio (24,53). In mezzo c'è tutta la vicenda di Gesù che non amava molto, invece, stare nel tempio.

Tutta la vita di Gesù è un lungo stare nel tempio dall'inizio alla fine. Non perché fosse sempre lì. Perché "stare nel tempio" vuol dire essere in contatto con Dio, sentirlo, cercarlo, desiderarlo, vederlo, amarlo. Stare nel tempio non è stare in chiesa: stare nel tempio vuol dire che dovunque io vada sono in contatto con Lui. Puoi essere in chiesa e non essere nel tempio di Dio e puoi essere in qualunque posto ed essere nel suo tempio.

Troppa gente è sconnessa: "Sei connesso?". Lavora, corre, è affaccendata, fa l'amore e fa sport, si muove, ride, canta, sistema la casa e le bollette, ma non c'è veramente. E' sempre altrove, non è mai veramente presente. E' sempre lontana da sé, è distante. Fa ma non sente, è sorda alla vita.

Un amico è addetto all'assistenza informatica. Un giorno lo chiama un signore dicendogli che il suo pc non funziona. Il signore era furente perché il pc era nuovo e gli serviva urgentemente. Dopo mezz'ora di tentativi telefonici vani, il mio amico fa una domanda ingenua, quasi offensiva: "Ma scusi, è attaccata la spina alla corrente?". Non lo era! Se non sei connesso, per quanto fai, non funziona niente. Sei in contatto? Ti senti? La spina è attaccata?

Il vangelo dice che gli apostoli erano pieni di gioia (charà). Gioia viene da charis, l'amore, la carità. Si è nella gioia solo quando ci si sente amati, voluti, protetti, benedetti, preziosi, ricercati. La gioia non si può produrre: è solo una conseguenza di qualcos'altro. Per questo gli apostoli erano "nella gioia": erano amati ogni giorno dal Signore.

All'inizio del vangelo (1,14) l'angelo Gabriele annuncia una "gioia" grande a Zaccaria: avrà un figlio. Zaccaria, che è vecchio e sua moglie è avanti nell'età, non ci crede. Non permette a Dio di amarlo, di dargli una gioia grande. Zaccaria guarda a sé e dice: "Come è possibile? Ma dai, Gabriele, guardami bene, non scherzare, ma come vuoi che faccia!". E diventa muto.

Amarsi è credere alla nostra grandezza, è permettere a Dio che ci faccia grandi, che ci destini per qualcosa di enorme; è credere al nostro valore, alla nostra bellezza, al mistero e alla forza che risiede nella nostra vita. Maria credette all'annuncio dell'angelo e credette alla sua grandezza. Infatti cantò in un'esplosione di gioia e di meraviglia, il Magnificat (1,46-55).

Così gli apostoli credettero che a loro, proprio a loro, Gesù aveva affidato il suo messaggio.

Quando la madre ama il bambino, se lo coccola, se lo bacia, lo fa ridere, gli fa un sacco di smorfie (che a ben pensarci sono tiri da deficiente) e di sorrisi (incomprensibili con tutto il dannare, la mancanza di sonno, i problemi e le preoccupazioni che un bambino comporta). Allora il bambino si sente importante, bello, voluto. Sente il suo valore, sente che la madre lo ama, sente che è importante per lei, ed è felice.

Si fanno tanti discorsi sui bambini ma la verità è semplice: se un bambino non è felice, non esprime gioia, non è un vulcano di creatività, di iniziativa, di movimento, di gioco, lo è perché non si sente amato. Perché l'amore produce la gioia.

Non vi ricordate più di quando eravate innamorati? Come vi sentivate? Non vi sembrava il mondo tutto un paradiso? Perfino il vostro nemico non era così cattivo! Perfino il lavoro era piacevole con il pensiero dell'amata nel cuore e nella mente! L'amore produce gioia. Il non amore produce tristezza.

Gli apostoli sono felici perché si sentono amati. Sentono che Gesù si fida di loro. Sentono di avere valore ai suoi occhi. Si sentono veramente importanti e grandi.

"Proprio a me Gesù dai il compito di continuare la tua missione?". "Sì, proprio a te!". Vuoi essere felice, fai come loro: "Dovunque mi chiamerai, io andrò!".

E basta con il dire: "Io? Io non sono in grado! Io? Ma cosa vuoi che sia capace di fare io? Io? Ma se non ho studiato, se non so niente? Ma non posso... ma ho paura... e se poi...". Vuoi essere felice, credi a Lui: "Tu sei grande! Sì, proprio te!". Se vuoi essere felice credi a questo e vai.

Cosa dovevano annunciare gli apostoli? Tre cose: 1. Gesù è morto ma è risorto; 2. la conversione; 3. il perdono dei peccati.

1. Gesù è morto ma è risorto: "Gesù non vi ha mentiti, non vi ha ingannati, non vi ha preso in giro, non si è sbagliato. Veramente lui è la Verità e la Vita, potete credergli, potete fidarvi, state tranquilli, è proprio come ha detto Lui".

2. La conversione. Una volta quando sentivo dire la parola "conversione", che bisogna convertirsi, mi dicevo: "Oddio no! Più buoni, più bravi, meno piaceri, questo no, quell'altro neanche, che palle!". Ma conversione vuol dire semplicemente: "Puoi vivere meglio, perché vuoi vivere ancora così?". Cambia! Quando qualcosa non funziona ti fermi e ti dici: "Funziona?". "No!". "Allora bisogna cambiare!".

Una storia racconta di due città sulla riva di un fiume. Si era appena scoperta la ruota che garantiva vantaggi consistenti per la vita delle città. Quella sulla riva destra utilizzò subito la scoperta. Quella sulla riva sinistra era diffidente verso la novità e non c'era verso che accettasse la ruota. Il fiume in un anno molto piovoso crebbe e tracimò. La città di destra, grazie alla ruota, riuscì a portare in salvo tutte le proprie cose e soprattutto tutti i propri animali. Quella di sinistra perse tutto.

Se puoi vivere meglio, cambiando (metanoia, conversione, lett. cambiare pensiero) le tue idee, perché non farlo? Se un modo di agire ti fa male, perché vuoi condannarti a stare male?

Pensi che tenerti per te le cose sia buono. Ma se fai così poi pensi sempre, rimugini, ti costruisci i tuoi film fantastici (perché esistono solo dentro di te) e diffidi delle persone. Cambia! Esprimi quello che hai dentro, dì quello che devi dire e vivi più leggero e libero. Non ne vale la pena?

Pensi che fermarsi a pregare, a fare silenzio, sia tempo sprecato. Ma poi sei sempre stressato, disgregato dalle mille cose, fuori dal tuo centro e sempre in confusione. Cambia! Fermati un po', ritrova l'unità interiore e una lucidità interna. Non ne vale la pena?

Quando parla tua moglie non riesci mai a stare zitto: come apre bocca l'attacchi subito perché ti vivi tutto come un attacco a te, una messa in discussione. Così litigate sempre. Cambia! Ascoltala, prova a stare zitto, a non dire nulla e a percepire i suoi bisogni.

Tuo figlio non riesce a studiare e tu gli dici: "Io vado a lavorare ed è il mio dovere e tu devi fare il tuo: studiare!". Ma forse non riesce a concentrarsi perché è disturbato da qualcosa, perché ci sono delle interferenze, delle emozioni forti che gli impediscono di mettersi sui libri. Cambia! Ascoltalo, inizia a chiederti cosa avrà dentro, cosa lo disturba; prova a capirlo. Non ne vale la pena? Altrimenti lui si sentirà sempre più colpevolizzato, tenterà di studiare, non ci riuscirà e si sentirà un incapace, uno stupido. E tu ti fai un fegato "come un pallone" a forza di arrabbiarti perché lui studi.

3. Il perdono dei peccati. Perdono, afiemi, in greco vuol dire lasciare andare, abbandonare, non trattenere.

Tutti noi sbagliamo: è così, fa parte del nostro essere uomini. E che si fa? Vuoi perseguitarti, colpevolizzarti, accusarti per tutta la vita? Riconosci lo sbaglio, esprimi il dolore per ciò che hai fatto, chiedi scusa, impara ciò che c'è da imparare e poi basta: "Lascia andare!".

Un uomo andava un po' troppo veloce, la sua auto ha sbandato e ha investito una ragazzina di otto anni, procurandole una serie innumerevole di fratture. Lui non se lo perdona. Che si fa?

Vai a trovarla in ospedale, le chiedi scusa, impari che se vai troppo veloce è molto più facile che succeda e poi ti perdoni: "Sì, ho sbagliato, ho fatto del male e mi dispiace. Ma non starò qui a rodermi per tutta la vita".

Marito e moglie litigano. Lui (non l'aveva mai fatto prima) le tira un bel ceffone e le fa veramente male. Si sente uno schifo, non riesce più neppure a guardarla in faccia; ha fatto anche pensieri strani dicendosi: "Se oggi ho fatto questo allora sono capace di tutto". Che si fa? Le chiedi scusa, ti accorgi che dentro hai tanta rabbia e che è meglio tirarla fuori altrimenti poi è un bomba che esplode e chi colpisce, colpisce; imparate ad entrare in conflitto in maniera diversa e poi ti perdoni: "Sì ho sbagliato e di grosso. Mi servirà da insegnamento. Ma adesso basta, non vuol dire che io sia cattivo, perverso. Non posso condannarmi, perseguitarmi per tutta la vita per una sberla".

Il perdono è meraviglioso perché ti libera da dei pesi enormi, da macigni che schiacciano. Se non perdoni cosa può succedere?

Se ti tieni tutto dentro, il dolore fomenta e diventa più grande e tu per non sentirlo devi distaccarti sempre di più dal tuo cuore diventando insensibile. Ma uno insensibile è più predisposto a ripetere certi gesti perché, appunto, non sente.

Se ti accusi, ti sottometti. Ti sembrerà di non meritarti più niente, di aver perso il tuo valore. Anzi ti sembrerà giusto se, ad es,. tua moglie te lo ricorda sempre o se ritira il suo amore per te. Dentro di te infatti ti dici: "E' giusto, con quello che ho fatto io a lei!".

Se ti colpevolizzi, perdi il tuo valore: "Faccio schifo; come ho potuto fare questo? è irrimediabile".

Se perdoni solo a parole credi di averti liberato facilmente, ma non è così. E' come togliere l'etichetta "veleno" da una boccetta di arsenico: il veleno è sempre lì dentro. Non se ne è andato solo perché hai tolto l'etichetta. Devi esprimere la sofferenza che hai dentro.

Tutti noi subiamo dei torti, degli attacchi (a volte anche gratuiti) o delle ferite. E che si fa? Percepisci il dolore, lo esprimi, se si può modificare la situazione lo fai, se devi risolvere (e se si può!) i conti in sospeso con qualcuno lo fai, e poi basta: "Perdona, lascia andare!".

Vivere perdonando è un modo di vivere, uno stile di vita che dovremmo vivere ogni giorno, sempre, in ogni piccola situazione.

C'è una cena. Sono invitati tutti i tuoi amici tramite messaggino e tu ("l'avviso io, l'avvisi tu!") no. Un fatto accidentale ma tu sei l'unica che manca. Allora ti arrabbi giustamente, chiedi spiegazione e le trovi. Esprimi il tuo dolore, la tua rabbia, chiedi motivo della cosa... e poi? E poi lasci andare, perdona.

Sei pazzamente innamorato di una donna. Ma lei non sceglie te ma il tuo migliore amico. Questa cosa ti fa male, "ti brucia", ti fa soffrire, ci avevi così tanto sperato! E poi... il tuo migliore amico!!! Così in un colpo solo hai perso due persone che amavi! Razionalmente lo sai che è così, che ognuno è libero di scegliere chi vuole... ma dentro! Che si fa? Piangi, esprimi il tuo dolore, il tuo essere rifiutato (è così!), il tuo sentirti tradito (non è così ma tu lo vivi così)... e poi? E poi lasci andare, perdoni.

I tuoi genitori preferiscono tuo fratello a te. Ci sono tante giustificazioni: lui è il primo, arrivato dopo tanta attesa; lui è più intelligente e brillante di te (tu sei un creativo) e i tuoi genitori lo apprezzano di più. Lui non dà problemi mentre tu ne hai sempre dati (chissà perché!?) per cui, per loro, lui è il bravo e tu la "testa calda". Ne parli, comunichi loro che hai bisogno di sentire la loro fiducia su di te, che ti sembra di non esistere per loro (potrebbero capire; potrebbero giustificarsi; potrebbero rifiutare il tutto)... e poi? E poi fai pace con il tuo sentirti rifiutato: se anche loro ti rifiutano, tu accettati. Ci vuole un po' di tempo, fa un po' soffrire ma non vale la pena di mendicare l'amore. E per qualcuno che ti rifiuta c'è sempre qualcuno che ti accetta. Perdona, lascia andare, lascia liberi ed esprimi il tuo sentimento, e poi basta.

Il peccato, la colpa, l'errore è un macigno che ci portiamo dentro.

Quando un sasso è tirato chi hai colpito hai colpito. Ormai è troppo tardi. Se qualcosa puoi fare è imparare a non tirarli più. Allora non ci resta altro che perdonare: libero il dolore e la rabbia.

Il dolore non liberato ci porta a chiuderci, a rifugiarci nella testa e nei pensieri.

La rabbia non liberata ci porta a difenderci sempre o ad attaccare tutti.

Si ha bisogno di rimettere i peccati non perché ce lo comanda Dio ma perché ci fa bene, ci fa vivere, tiene sensibile il nostro cuore e lo lascia capace d'amare. E' un dovere religioso perdonare perché è un "dovere" della vita. Perché vuoi vivere, e soffrire così tanto? Cambia, convertiti.

Pensiero della Settimana
Lezioni di vita per soffrire sicuramente:
"Io faccio sempre il bene e poi guarda cosa me ne viene";
"Perdono ma non dimentico";
"I miei sentimenti me li tengo per me";
"Io non mi arrabbio mai";
"O le cose le faccio bene o non le faccio";

"Io posso stare anche senza gli altri e anche senza amore".

 

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