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TESTO Una presenza discreta ma efficace

padre Gian Franco Scarpitta  

Ascensione del Signore (Anno C) (16/05/2010)

Vangelo: Lc 24,46-53 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 24,46-53

46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».

50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Luca si rivolge a Teofilo con parole illuminanti e dense di profondità descrittiva e il suo linguaggio cattura l'attenzione mentre descrive il passaggio dalla permanenza di Gesù in mezzo ai suoi apostoli, dalla durata di quaranta giorni, alla solitudine e al senso di sbigottimento che essi devono affrontate una volta che Questi è asceso al Cielo.

Guardano attoniti verso la volta celeste, forse sbigottiti e depressi: capiscono che d'ora in poi devono gestire tutto da soli: la vita, la comunità interna, la missione. Sanno che il Signore ha loro dato un mandato specifico, ma non sanno probabilmente da che parte cominciare e sebbene aspettano come certa la realizzazione della promessa dello Spirito Santo che risolverà ogni dubbio, restano disorientati e in preda alla paura dei Giudei.

Tuttavia essi ormai sanno bene quello che è capitato al loro Maestro.

Luca descrive la scena suggestiva della "nube" che sottrae Gesù allo sguardo attonito degli apostoli; come si sa, essa è nella Bibbia un elemento teofanico, che attesta alla presenza di Dio e alla sua volontà di comunicare con l'uomo pur restando Egli medesimo.

Gesù, come dice la Lettera agli Ebrei (II Lettura) è entrato nel cielo stesso, definito il Santuario, la vera dimora del Dio vivente: è entrato insomma nella pienezza della dimensione di Dio che gli è propria, abbandonando la condizione di insufficienza e di annichilimento che la sua umanità aveva comportato mediante l'incarnazione, e sottraendosi alle misure del tempo terreno.

In effetti, Gesù ha raggiunto la sfera piena del divino che come già abbiamo detto, è quella di sua pertinenza: sebbene Incarnato per assumere la realtà umana fino allo stato più precario e derelitto, sebbene avvinto dalle limitatezze della nostra storia e soggiogato alle nostre leggi, Egli, accanto al Padre e allo Spirito Santo è pur sempre il Dio preesistente fin dall'inizio dei secoli, il Signore e il dominatore dell'Universo e pertanto con quel fenomeno che noi definiamo Ascensione abbandona adesso le suddette limitatezze temporali, tralascia le imperfezioni proprie dell'umano, si sottrae alla pochezza del nostro quotidiano per assumere la dimensione piena del divino.

Così, nella sua ascensione al Cielo, Gesù si propone ancora una volta agli uomini come Dio, ma ancor meglio come il "Dio con noi", l'Emmanuele che presenzia nella nostra vita senza turbarla e senza apportarvi sconvolgimenti di sorta ma solo entrando con discrezione per apportare, secondo la nostra disposizione d'animo, una garanzia di gioia e di realizzazione: nonostante egli sia fuggito alla nostra esperienza sensoriale, resta sempre il Vivente che dà fondamento alla nostra storia, al nostro passato, al presente e al futuro, come del resto egli stesso aveva garantito: "Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo". La sua ascensione non corrisponde insomma alla sua assenza, ma richiama la nostra sensibilità perché di Gesù riscontriamo una presenza certa, fondata, reale e indiscussa che tuttavia non i sensi possono provare, ma la fede.

E' questa una virtù definita come "il fondamento delle cose che si sperano; la prova di quelle che non si vedono" (Eb 11, 1), la prerogativa per la quale noi possiamo vedere ora in maniera confusa, come in uno specchio (1Cor 13, 12), nell'attesa della visione nitida definitiva della gloria dove il mistero non sarà più mistero ma diventerà certezza e vita eterna; ma nonostante questa confusione non restiamo disorientati perché siamo certi della sua presenza reale, effettiva e santificante. La presenza cioè nella missione della Chiesa, nella quale egli stesso continua la sua opera di salvezza rivolta a tutti gli uomini; la sua presenza di guida che pasce, conducendolo ed edificandolo, il suo gregge nel ministero vicario del successore di Pietro e dei vescovi, successori degli apostoli; la sua presenza nella ministerialità della Parola e della liturgia e soprattutto la presenza reale e sostanziale dell'Eucarestia, nella quale egli ci si propone tutt'oggi come il Risorto che vive per sempre come pane di vita.

Deve essere evidente che nei primi anni della Chiesa dopo l'Ascensione di Gesù si pensava che il suo ritorno dovesse essere imminente e pertanto anche gli apostoli si atteggiavano, nella prassi, in prospettiva dell'accoglienza del Maestro che, secondo le parole di quelle figure angelica, sarebbe tornato visibilmente così come lo si era visto salire alla dimensione del divino.

Non tardarono tuttavia a percepire che il loro Signore era sempre con loro e che li avrebbe sostenuti attraverso interventi strabilianti come ad esempio l'invio dello Spirito Santo e la conseguente capacità di intraprendenza e di zelo nell'intrapresa della missione di annuncio a partire da Gerusalemme; oppure come la guarigione dello storpio alla porta Bella del tempio e altri prodigi che gli stessi apostoli compiranno sempre nel nome di Gesù e che attesteranno la realtà effettiva di una presenza sempre attiva che conforta e orienta. Come pure dovettero sperimentare che il Signore è davvero a noi vicino tutte le volte che lo si prega o si instaura una comunione di carità e di solidarietà con il prossimo. Esperienze tutte di vita che interpellano sempre, chiamandola in causa di volta in volta, sempre la virtù indomita della fede, la quale è la prova di ogni cosa nella misura in cui noi la viviamo come attitudine di abbandono indiscusso e disinvolto al mistero, apertura del cuore e disposizione ad elevarci verso ciò che non si tocca, che non si vede, ma proprio per questo è reale.

L'Ascensione di Gesù allora capita a fagiolo. Ci invita infatti a riscoprire che la vera consolazione consiste non in prove certe e matematiche o nella presunta visione di immagini o segni, ma piuttosto nell'apertura del cuore a quello che è il mistero, nell'affidarsi libero e spontaneo a Dio in tutte le circostanze non in virtù di manifestazioni soprannaturali ma in forza di quanto Egli stesso ha rivelato nella sua Parola. In modo peculiare oggi noi siamo invitati a credere - cioè ad accogliere e ad accettare- che Lui è asceso al Cielo; il che non vuol dire che ci abbia abbandonati ma che la sua compagnia resta sempre effettiva e duratura sia pure sotto altri aspetti.

La solennità odierna di conseguenza di rincuora tutte le volte che, in ogni caso, ci debba minacciare il tarlo della solitudine che diventa deleterio e pernicioso quando lo si alimenta con la sfiducia, con lo sconforto e con la disperazione; se Cristo da Asceso è presente ciò vuol dire che egli è la nostra compagnia perenne, la nostra forza e la motivazione di eludere anzi di rendere irreale il senso di abbandono e di solitudine: proprio quando ci si sente soli Gesù è con noi e la sua presenza non è difficile ad essere percepita e vissuta.

 

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