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TESTO Le mie pecore ascoltano la mia voce

mons. Gianfranco Poma

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IV Domenica di Pasqua (Anno C) (25/04/2010)

Vangelo: Gv 10,27-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

Nella quarta domenica di Pasqua la liturgia ci offre un piccolo brano (Giov.10,27-30) tolto dal discorso nel quale Gesù si presenta come il "buon pastore". Per cogliere in modo corretto il messaggio che il Vangelo vuole rivolgere oggi a noi, occorre collocare il discorso di Gesù nel suo contesto nativo. Il libro degli Atti degli Apostoli, che pure leggiamo in questo tempo pasquale, descrive la complessità e le tensioni che attraversano le comunità cristiane degli inizi. Progressivamente, nella Chiesa primitiva si sono sviluppate strutture di autorità: in Atti 6, in una comunità divisa, si è creato il bisogno di una direzione amministrativa; la persecuzione aveva spinto gli ellenisti a fuggire da Gerusalemme e a cominciare una missione presso i samaritani. Questo spiega perché alcuni testi del Vangelo di Giovanni parlano della guardia del gregge e delle pecore che "non appartengono a questo ovile". Per i cristiani ellenisti vengono scelti amministratori locali, mentre a capo della comunità cristiana formata da Ebrei si trovano Giacomo e gli Anziani. In Atti 14,23, Paolo designa alcuni Anziani per le diverse chiese e in Atti 20,28 agli Anziani di Efeso ricorda che devono essere i pastori della Chiesa per la quale lo Spirito santo li ha designati come pastori. In questo contesto va letto il cap.10 del Vangelo di Giovanni: la sua intenzione è di correggere i pericoli inerenti a queste strutture che stanno nascendo. Coloro ai quali viene affidata l'autorità nella Chiesa tendono immediatamente a prendere troppa importanza agli occhi di coloro che si ritiene debbano servire, perché la loro presenza non ha mediazioni e spesso si pensa che solo attraverso loro e attraverso quello che fanno si arriva a Gesù. Per Giovanni ciò che conta è l'immediatezza di Gesù che solo può dare la vita di Dio. Verso la fine del sec.I, mentre il titolo di pastore è ormai largamente diffuso per designare i responsabili delle chiese, Giovanni insiste sull'idea che Gesù è il solo Pastore, il modello di tutti i pastori e che tutti gli altri sono ladri e briganti. E' vero che nel contesto di Giovanni queste parole sono rivolte ai Giudei e quindi gli attacchi possono riguardare anzitutto i capi della sinagoga, ma inevitabilmente ricadono sui cristiani qualificando in modo specifico il ruolo dei capi delle loro chiese: è spiegabile allora la venatura polemica, raffinata ma evidente, che il brano conserva e che ne impedisce una interpretazione sentimentale e bucolica.

"Io sono il buon pastore": ha affermato ripetutamente Gesù in questo discorso Giov.10,11.14), suscitando reazioni violente da parte degli ascoltatori. "Sorse di nuovo dissenso tra i Giudei per queste parole. Molti di loro dicevano:E' indemoniato, è fuori di sé, perché state ad ascoltarlo?" (10,19). E dopo le parole che la liturgia odierna ci fa leggere, la reazione è ancora la stessa: "Di nuovo i Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo" (10,31) e dopo il commento di Gesù: "Allora cercarono nuovamente di catturarlo, ma egli sfuggì dalle loro mani (10,39). Ma che cosa ha detto Gesù di tanto scandaloso da suscitare una reazione tanto ostile? In realtà Gesù ha risposto a una domanda che tanto assillava i Giudei: per noi che leggiamo oggi il Vangelo, come per i cristiani della prima generazione, è importante che facciamo nostra la stessa domanda, se non vogliamo dare per scontata una realtà che solo da chi crede veramente è percepibile, una realtà che è sconvolgente per i Giudei e non può non cambiare la nostra vita se la accogliamo veramente. Giovanni ci dice che Gesù si trovava a Gerusalemme per la festa della Dedicazione e camminava nel Tempio, nel portico di Salomone. "Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo, (il Messia), dillo a noi apertamente" (10,24). Gesù, invece di rispondere: Sì, sono il Messia, risponde rimandandoli all'esperienza che Lui fa fare a chi tra loro vedendo le sue opere, crede in Lui. "Le mie pecore ascoltano la mia voce". "Le mie pecore" dice Gesù: il popolo di Israele parlava di sé come del gregge che Dio conduce, aspettava il Messia come pastore attento e dedito al popolo di Dio. Gesù per affermare che egli è il Messia, impronta il suo linguaggio all'immagine del rapporto tra il pastore e il suo gregge. Gesù dunque è il Messia, ma per capire questo occorre entrare nell'esperienza della relazione con Lui. Gesù è il Messia: è l'inviato di Dio, realizza le attese dell'uomo più profonde di quelle che l'uomo stesso aspetterebbe. Gesù è il Messia: non si accetta Gesù come Messia perché egli risponde allo schema di attesa etica o dogmatica predefinita dagli scribi o dai farisei. Gesù è il Messia inviato da un Dio che ama l'umanità senza limiti, che parla parole umane perché possano essere ascoltate dagli uomini poveri, che discende allo stesso livello degli uomini per poter entrare in una relazione di amicizia con loro, così stretta da poter essere ricambiata da loro. E' meravigliosa l'affermazione di Gesù: "io le conosco, ed esse mi seguono". Gesù "conosce" già le fragilità delle sue pecore, anche quelle estreme: ed esse "mi seguono" perché non sono condannate, sono solo amate, e con Lui costituiscono la sua comunità. Gesù non rimanda ad una astratta definizione di Messia che egli cerca di realizzare: Egli presenta se stesso come offerta inesauribile di vita: "Io do loro la vita eterna". Entrare in rapporto con Lui significa gustare la vita nella sua pienezza: pur nella fragilità, nel peccato, nel dolore, nella violenza subita, egli è offerta di Amore. Lui per primo, nella sua fragilità umana ha sperimentato che persino nella morte è presente un Amore che ridona la Vita. Ed è Lui solo: "Io sono" il dono di Amore che non abbandona nessuno, il dono di vita che non muore, il dono di Amore più forte di tutto e di tutti, persino della morte. E questo perché egli è il dono del Padre, il Messia, il Cristo. "Io e il Padre siamo UNO": così Gesù arriva ad annunciare che Lui è solo Amore, Amore incarnato che conosce la carne umana, ma nella sua carne sta l'Amore infinito del Padre. Chi si abbandona all'Amore così umano di Gesù, entra nell'infinita esperienza di Dio.
Questo è Lui solo, Lui solo è il "buon Pastore".

Chi non crede in Lui, chi è chiuso nelle proprie concezioni dogmatiche non può non scandalizzarsi di Lui, di un Amore che spacca ogni regola. Ma chi crede in Lui, chi si lascia amare da Lui, chi si lascia conoscere da Lui, non può non fare l'esperienza della propria umanità fragile, peccatrice, ma non può non sentire che proprio nel profondo della fragilità rinasce la Vita.

Ma noi crediamo in Lui solo? E i Pastori della Chiesa sono sufficientemente attenti a non pretendere di identificarsi con Lui che rimane il solo "buon Pastore; ricordano sempre di essere partecipi della fragilità umana amata da Gesù e che di questa esperienza di Amore sono chiamati ad essere testimoni per evitare che l'esperienza della Chiesa scada a "mera burocrazia", e la loro missione a "impegno da funzionari"?

 

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