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TESTO Pastoralità di umiltà e di comunione

padre Gian Franco Scarpitta  

IV Domenica di Pasqua (Anno C) (25/04/2010)

Vangelo: Gv 10,27-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

Nessuno può esercitare degnamente un servizio senza esserne stato prima egli stesso destinatario; qualsiasi autorità che venga esercitata senza il previo esercizio della sudditanza e della gavetta è destinata a fallire e nessuno può essere convenientemente di guida agli altri senza essere stato egli stesso guidato e senza aver ricevuto disposizioni dagli altri. Queste conclusioni traggo sempre dalle pagine del Nuovo Testamento e in particolar modo la liturgia di oggi suggerisce mi un'altra conclusione: è sicuramente capace di compatire gli altri condividendo problemi, angosce e sofferenze, chi è stato prima subissato da umiliazioni e frustrazioni. Chi ha subito oltraggi e cattiverie è in grado di comprendere più degli altri cosa siano le ingiustizie, le aberrazioni e le vessazioni morali. Guardiamo il caso di Gesù: egli si proclama Pastore, e tale viene riconosciuto, non per una sua spontanea volontà di preponderanza presuntuosa sugli altri; non in forza del suo potere indiscusso che gli deriva dalla sua divinità e per il quale avrebbe diritto a queste e altre autoesaltazioni, ma semplicemente perché è stato "Agnello condotto al macello", vittima immolata per la nostra salvezza." (Ap 7, 14). Egli è Pastore perché ha saputo immedesimarsi nella condizione di nullità e di insignificanza delle pecore, perché ha voluto egli stesso fare parte del gregge e per di più perché non ha ricusato di essere, fra tutte le pecore, la più indifesa e abbandonata cioè l'agnello condotto al macello. Afferma il libro dell'Apocalisse: "Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti con il sangue dell'Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio..." Si riferisce alla moltitudine degli eletti, cioè dei cristiani che hanno perseverato fino in fondo nella fedeltà al Signore e che hanno accettato tutte le prove e le umiliazioni nel suo nome, compresa la morte a testimonianza della fede. Il sangue di Cristo Agnello immolato è stato per essi motivo di riscatto e di salvezza perché ha procurato la redenzione; essi si sono associati all'Agnello per seguirne le orme, per vivere l'intensità della comunione con lui e per questo meriteranno la ricompensa futura.

Il tema centrale è però sempre quello del Pastore che è stato agnello, immagine associata a quella, sempre relativa a Cristo, di Capo e di Corpo della Chiesa. Poiché egli è stato Agnello e vittima e ha compatito le infermità del suo gregge è stato posto a capo di una moltitudine che può contare sulla sua guida e può avvalersi della sua protezione certa ed effettiva.

Unico pastore è Cristo, che esercita il suo ministero con la sollecitudine e la costanza descritta dal vangelo di Giovanni, instaurando una relazione di reciproca fiducia e di affermata sintonia con ciascuna delle sue pecorelle, vivendo con ciascuna di esse l'unione, la comunione che esse e ancora una volta questa sua autorità pastorale gli deriva dalla sua obbedienza, adesso intesa come sottomissione alla volopoi estendono fra di loro. Tale è l'identità della Chiesa: una realtà di comunione di tutti i battezzati con il Cristo loro capo che si estende alla locale comunità in cui tutti i membri pur essendo tanti formano un corpo solo. E tale autorità deriva a Gesù ancora una volta dalla sua relazione di idfentità con il Padre: "Il Padre mio che me le ha date è il più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio." E anche adesso l'umiltà di Gesù si afferma con la possibilità di autonomia indiscussa alla quale tuttavia egli rinuncia: pur essendo egli Dio alla pari del Padre (io e il Padre siamo una cosa sola), esprime la sua volontà di farsi obbediente, dimesso e sottomesso insomma di umilarsi fino alla condizione di schiavo o di mandatario del ministero di Pastore ai fini di condividere tutto con le sue pecorelle. La pastoralità di Gesù non è spadroneggiamento né coercizione, ma servizio disinteressato che si scinde con l'annientamento e con l'umiliazione da cui trae origine, con il suo farsi Agnello e vittima innocente per noi. Questo è il motivo sufficiente per cui noi si debba coltivare con maggiore assiduità la nostra fede sulla quale poggia la speranza in Gesù Cristo: affidarsi totalmente a lui, vivere la comunione piena da Figli di Dio e identificarci fratelli in Cristo è la disposizione che si richiede alla pecore che riconoscono il Pastore. Affidarsi al ministero istituito da Gesù nella Chiesa, ai ministri della Parola e dei sacramenti e alla guida spirituale visibile del papa e dei vescovi attraverso i quali il Cristo esercita visibilmente il suo ufficio di pastore umile e servizievole, equivale a riconoscere nella loro persona lo stesso Cristo che guida, esorta e santifica. Egli infatti ci orienta attraverso uno specifico ministero pastorale umano nella successione apostolica, che non sostituisce l'unica autorità pastorale di Cristo, ma di essa svolge la funzione vicaria. In altre parole nel ministero della Chiesa riscontriamo l'agire salvifico e illuminante dello stesso Signore, che và riconosciuto come il Pastore supremo, amante delle pecorelle predilette che sono tutti i battezzati.

Non va omesso di considerare tuttavia che Cristo Agnello e Pastore esige coerenza, linearità e correttezza morale in primo luogo dagli stessi suoi ministri perché, come esorta Pietro, pascano zelantemente il gregge di Dio non spadroneggiando sulle persone loro affidate, ma sorvegliando, esortando, guidando tutte le pecore di buon animo e soprattutto facendoci loro modello, cioè dando loro l'esempio di perfezione evangelica il tutto considerando che il Pastore Supremo, del cui lavoro dovranno rendere conto, è il Signore (1Pt 5, 2-4). E' indispensabile quindi anche i sacerdoti si rendano credibili in tutte le loro opere e in ogni attività da loro esercitata, conformandosi al Vangelo nella continua esemplarità della vita: solo con la schiettezza, l'umiltà, la generosità e il palese innamoramento di Cristo testimoniato agli altri noi saremo effettivi latori del messaggio affidatoci da Cristo ottenendo il riscontro da parte dei nostri fedeli. E' comprensibile che determinati atteggiamenti turpi e riprovevoli da parte di certi sacerdoti di cui parla la cronaca di questi giorni, abbiano disorientato i fedeli e aprano le porte alla sfiducia mentre la Chiesa rischia di perdere la sua credibilità. Occorrerebbe reimpostare i criteri di selezione seminaristica degli aspiranti al sacerdozio, come pure isolare persone colpevoli di siffatti atti perché entrino definitivamente nelle condizioni di non nuocere più a nessuno; ma anche prescindendo da siffatti avvenimenti sconcertanti occorrerebbe che ci innamorassimo più di Cristo che delle opere sociali e delle attività di attrazione con le quali molto spesso poniamo solo noi stessi al centro dell'attenzione, non dimenticando che le stesse opere e attività di animazione hanno valore solo a partire dalla Parola di Dio.

Cristo Pastore esorta insomma anche i suoi ministri a fare la parte delle pecorelle bisognose di orientamento e di appiglio unico in Lui che è stata Agnello immolato perché nella nostra stessa vita possiamo essere i orientamento al nostro gregge e possiamo sempre riaffermare la realtà di Cristo unico Pastore. E queste condizioni sono indispensabili per evitare ogni dispersione fra le pecorelle e scongiurare il pericolo che non siano proprio esse un giorno a pascere noi pastori.

 

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