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TESTO La storia del nostro ritorno

Suor Giuseppina Pisano o.p.

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IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno C) (14/03/2010)

Vangelo: Lc 15,1-3.11-32 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 15,1-3.11-32

1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Questa quarta domenica di Quaresima offre alla nostra riflessione una pagina di Vangelo tra le più belle, commoventi e care di tutto il Nuovo Testamento: è il racconto della parabola del "figlio prodigo", così siamo abituati a intitolarla, anche se colui che è veramente prodigo è quel padre la cui vita è interamente spesa nell'amore del figlio che si è allontanato da lui.

Quella che Luca racconta nella parabola è la storia drammatica di uomo che ha bruciato la sua esistenza nel peccato, ed ora ritorna, in un cammino di conversione non facile, a quel padre che un giorno ha abbandonato e del quale ora ha nostalgia; una storia che è, allo stesso tempo, la storia di un padre che vede il figlio andare lontano, andare per una via sbagliata e si consuma nell'attesa del suo ritorno, nel desiderio di rivedere suo figlio che avanza sulla via di casa, sinonimo di sicurezza, di pace, di accoglienza e di amore.

Un uomo aveva due figli - inizia così il testo della parabola - il più giovane dei due disse al padre: "Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta". Ed egli divise tra loro le sue sostanze...

"Dammi la parte di patrimonio che mi spetta"; questa è la pretesa del figlio più giovane, pretesa che vuole anticipare il tempo dell'eredità, pretesa di appropriarsi di un patrimonio che è, sì, suo, ma non del tutto e non mentre il padre è in vita; e il padre, nella sua longanimità, concede una buona parte delle sue sostanze così che il figlio può andare per la sua strada, illuso di trovare, da solo, lontano dallo sguardo vigile del padre, la sua felicità.

Il racconto della parabola richiama alla memoria la storia delle nostre origini, quando Adamo, anziché ascoltare Dio, obbedire a quanto lui aveva raccomandato e vivere felicemente nell'amicizia col suo Creatore, si pose come antagonista nei suoi confronti e, dando ascolto alle insinuazioni del Maligno, decise di farsi arbitro assoluto della propria vita, sicuro, in tal modo, di realizzare a pieno la sua libertà, mentre di fatto egli cadde in una rovinosa situazione di peccato, da cui solo la misericordia di Dio potrà rialzarlo (Gn cap. 3).

La stessa cosa accade al giovane di cui parla la parabola, e il cui peccato non fu di aver chiesto la sua parte di eredità, e neppure di averla poi dissipata, lontano da casa, in una vita insulsa e disordinata; no, il peccato era in quell'errata convinzione, ben radicata nell'anima, che la casa del padre fosse una prigione e la presenza di lui qualcosa di insopportabile, mortificante, e fortemente limitante per la libertà; ed ecco la via della lontananza, vista come via di libertà piena e di vera autorealizzazione.

E' questo è il peccato del figlio minore: la diffidenza nei confronti del padre, e la pretesa di costruire da solo la propria vita.

Ed è anche il nostro peccato, perché nella parabola ci siamo dentro tutti, tutti noi, quando pensiamo e vogliamo essere arbitri assoluti di noi stessi; quando crediamo d'esser noi, creature umane limitate e fallibili, i padroni della vita e della storia; ed è qualcosa che assomiglia al conflitto adolescenziale che oppone padri e figli, quando questi ultimi mordono il freno, e vorrebbero gestirsi completamente da soli, fuori da ogni guida e controllo; ed è il sogno di una libertà malata, o che non ha ancora raggiunto la maturità, quella maturità che vede il figlio in dialogo col padre e viceversa; un dialogo, che si fonda sulla conoscenza, la fiducia reciproca, l'amore e la comunione.

Il peccato del giovane è, dunque, il nostro peccato e si chiama lontananza, quella lontananza da Dio che è oscurità, che è sconfitta, che è angoscia e che molto spesso ci fa toccare il fondo.

Più o meno tutti l'abbiamo sperimentato, in forme diverse, per periodi più o meno lunghi, ma tutti, o quasi, ci siamo allontanati, fino a che non ci ha preso la nostalgia di Dio, il desiderio della gioia e della sicurezza accanto al Padre.

E' quel che ci dice la parabola, quando il giovane "prodigo" fece esperienza della solitudine e della povertà, quando si accorse della sua incapacità a gestire la vita e constatò quanto grande e drammatica sia l'insufficienza umana di fronte ai problemi della vita; quanto fragile sia l'esistenza umana, che ha sempre bisogno di aiuto da parte degli altri; non aiuto qualunque, ma un aiuto sincero, un aiuto amico, quello che non offende e non umilia.

Ed ecco il ricordo di una felicità perduta: Quanti salariati di mio padre - pensa tra sè il giovane - ìhanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: "Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati!".Z

Il desiderio del figlio era anche desiderio del padre, che come lui soffriva non tanto dell'arroganza con cui aveva chiesto quanto ancora non gli spettava e neppure per lo sciupìo di quei beni non suoi, ma soffriva della lontananza di quel suo ragazzo e del disagio in cui viveva.

E in questo desiderio il padre veglia, attende, spia l'orizzonte, nella speranza simile ad una certezza, che il ragazzo tornerà a lui; un desiderio, che padre e figlio hanno in comune e che si fa punto d'incontro: una forza che consentirà al figlio di mettersi sulla via del ritorno.

Quando era ancora lontano - recita il testo - suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò"; una storia tenera e intensa nella quale possiamo leggere la storia di ogni conversione, la storia di ogni nostro ritorno a Dio, quel ritorno sollecitato dall'amore del Padre che desidera aver con sé tutti i figli, senza che alcuno si perda.

La conversione non è un percorso facile, anzi è impossibile che l'uomo ritorni a Dio con le sue sole forze interiori; del resto, senza che noi lo desideriamo, Dio non ci converte a sé: perciò è indispensabile che il nostro desiderio e il desderio di Dio si incontrino; poi l'amore del Padre farà il resto.

Sulla via del ritorno il giovane figlio aveva preparato mentalmente un discorso, nel quale, con atteggiamento umile, si riconosceva colpevole; forse anche noi pentiti, sulla via del ritorno a Dio, abbiamo preparato un discorso ma al Padre le nostre parole non interessano: come nella parabola, egli ha fretta di far festa, ha fretta di tenerci stretti nel suo abbraccio e di riconoscersi nel nostro volto, un volto di figlio che ha i tratti del volto del Padre.

E' l'esperienza dell'amore di Dio che questo tempo di Quaresima ci esorta e ci conduce a fare attraverso una conversione incessante, un ritorno sollecito e fiducioso a Dio; e se è vero che l'insidia di deviare è sempre presente, è anche vero che l'amore del Padre ci soccorre, ci rialza, ci riabilita, ci dà fiducia e ci insegna ad amare e a guardare con affetto e misericordia anche a tutti coloro che giudichiamo 'lontani'.

Guai a noi se assomigliamo a quel figlio "perfetto", il figlio che non aveva mai abbandonato la casa del padre ma aveva un animo altezzoso e impietoso; egli era formalmente rispettoso, non aveva mai trasgredito un comando del padre, non aveva approfittato delle sue ricchezze, ma purtroppo non aveva neppure conosciuto chi fosse realmente suo padre; non aveva mai colto la forza del suo amore, la grandezza e la gratuità di quell'amore che, perdonando, fa nuova ogni creatura; quel figlio era solo apparentemente giusto, in realtà era schiavo dell'amarezza che lo aveva reso incapace di amare e di gioire della gioia del padre e di quel fratello ritrovato, tornato in vita e salvo.

La conversione opera anche il miracolo della gioia, la gioia grande di chi, col perdono, fa esperienza dell'amore di Dio, il Padre tenero e sollecito che è vicino ad ogni uomo, pronto a risollevarlo da ogni caduta; è sua quell'esultanza che apre il nostro cuore alla gioia e ci fa cantare col Salmista:

"Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome.

Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni mia paura mi ha liberato. Guardate a lui e sarete raggianti, i vostri volti non dovranno arrossire.

Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce". (Sl 33)

sr Maria Giuseppina Pisano o.p.
mrita.pisano@virgilio.it

 

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