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TESTO Lo Spirito che riempie l'universo

don Fulvio Bertellini

Pentecoste (Anno B) - Messa del Giorno (08/06/2003)

Vangelo: Gv 15,26-27; 16,12-15 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 15,26-27; 16,12-15

26Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; 27e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.

12Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. 14Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. 15Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.

La festa di Pentecoste ci conduce a soffermarci sul ruolo dello Spirito nella Chiesa. Luca negli Atti mostra chiaramente che la Chiesa non è tale senza la presenza attiva dello Spirito. La sua missione è fatta iniziare dall'effusione dello Spirito il giorno di Pentecoste. Senza Spirito, niente Chiesa.

Lo Spirito del Risorto

L'evangelista Giovanni ci presenta una prospettiva diversa, ma convergente. Gioavnni non isola il fatto della Pentecoste nella sequenza narrativa del suo Vangelo, e la cosa non ci deve sorprendere: ogni evangelista ha le sue accentuazioni e le sue preferenze. Per cui Giovanni allude al dono dello Spirito già sulla croce (morendo Gesù "rese lo spirito", espressione ambivalente, che potrebbe essere anche intesa come Spriito Santo), e lo esplicita nel racconto dell'apparizione nel cenacolo. Anche per Giovanni lo Spirito dà avvio alla missione: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi". Anche per Giovanni, la presenza dello Spirito è caratteristica del tempo della Chiesa: "Se non me ne vado, non verrà il Consolatore".

Lo Spirito della comunicazione

Nel racconto lucano della Pentecoste, l'evangelista sottolinea soprattutto il miracolo delle lingue, e il fatto che tutti comprendono nel loro linguaggio le grandi opere di Dio. E' il miracolo della comunicazione che si compie, la possibilità di intendersi, di capirsi, di ascoltare la Parola di Dio. Abitualmente noi pensiamo in termini di contrapposizione: prima devo essere capace di comunicare, poi sarò capace di ascoltare la Parola di Dio. Anche come cristiani e annunciatori del Vangelo, pensiamo di doverci prima impadronire degli strumenti della comunicazione, per poi usarli al servizio del Vangelo. Questo è senz'altro vero, ed è confermato dall'esperienza di alcuni santi, primo tra tutti Agostino, abilissimo oratore che mette tutta la sua arte comunicativa a servizio dell'annuncio cristiano. Ma è vero anche il contrario: è proprio la Parola di Dio, ascoltata nello Spirito, che libera le nostre capacità comunicative, altrimenti bloccate nel circolo vizioso del nostro egoismo e del nostro orgoglio. Viviamo nell'era della comunicazione, eppure, paradossalmente, il tema di tanti film e libri è proprio l'incomunicabilità, la difficoltà a capirsi in profondità. Abbiamo potenziato enormemente la comunicazioe, ma resta una comunicazione di tipo commerciale, falsata nel profondo, e siamo sempre sottoposti alla tentazione di sedurre e ingannare, senza realmente incontrare l'altro.

Lo Spirito del perdono

Il Vangelo di Giovanni non sottolinea il ruolo comunicativo dello Spirito, ma la missione principale dei discepoli che lo ricevono: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi". Compito principale del loro annuncio è il perdono. Di questo perdono la nostra comunicazione malata ha bisogno per ripartire, fondandosi su una base solida. La nostra incomunicabilità nasce dal cedimento alla tentazione dell'autosufficienza, dell'autoreferenzialità, alla tentazione di sfruttare coloro che Dio ci ha dato come fratelli, per farne oggetti al nostro servizio: al servizio del nostro piacere, del nostro bisogno di realizzazione, ma anche - e questa è la tentazione più pericolosa - del nostro bisogno di fare buone opere per "sentirci a posto". Lo Spirito del perdono ci ricorda immediatamente che non siamo a posto, che è lui che ci rinnova, che è lui che ci riapre all'autentica relazione.


Flash sulla I lettura

Il verbo "riempire" caratterizza, con le sue varie forme, la prima parte del brano. Il giorno della Pentecoste "sta per finire" (nel testo greco: "stava per essere riempito, o compiuto), il vento che "riempie" la casa, gli apostoli che divengono "pieni" di Spirito Santo. Un senso di completezza, di piena realizzazione, pervade la narrazione, e trova numerosi echi nella liturgia: nell'antifona d'ingresso, nel ritornello del salmo ("Del tuo Spirito Signore è piena la terra...), nella preghiera sulle offerte (...perché riveli pienamente ai nostri cuori il mistero di questo sacrificio...), nel prefazio ("oggi hai portato a compimento il mistero pasquale"). La Pentecoste significa dunque, nelle intenzioni dell'evangelista, e nella nostra celebrazione liturgica, il raggiungimento della pienezza dell'identità della Chiesa. Ciò che mancava ai discepoli è finalmente loro donato, non per opera loro, ma per la libera e imprevedibile azione dello Spirito. Sorge quindi la domanda se anche le nostre comunità cristiane abbiano già raggiunto questa pienezza, e se ne siano consapevoli. Solo l'accoglienza dello Spirito può dare alla Chiesa la pienezza della sua identità e abilitarla alla missione.

"Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano...": la seconda parte della narrazione della Pentecoste cambia prospettiva, e si pone dal punto di vista degli astanti. L'evangelista non ci fa conoscere la reazione interiore dei discepoli al dono dello Spirito, ma ci presenta i fatti dall'esterno, e attraverso gli occhi dei loro interlocutori. L'impatto dello Spirito in chi lo riceve resta, giustamente, avvolto nel mistero; ma ha una sua risonanza esterna, che conduce a riconoscere "le grandi opere di Dio". Il prodigio su cui maggiormente ci si sofferma è la capacità comunicativa: si crea un ponte tra le razze più diverse, unite dalla stessa fede, ma non appiattite in una stessa cultura. Lo Spirito fa unità, ma senza schiacciare le differenze.

Flash sul salmo

"Benedici il Signore anima mia". Il salmo invita ad assumere l'atteggiamento della lode. Si tratta di riconoscere ed esaltare la grandezza di Dio. Un atteggiamento che in verità ci risulta difficile, come mostra in maniera molto concreta la difficoltà di cantare nelle nostre assemblee liturgiche. Cantare, lodare, anche danzare sono cose da bambini, che i genitori si dilettano di guardare, o cose da fanatici, gruppi di esaltati che confondono la Chiesa con la discoteca. Tutt'al più si apprezza la corale parrocchiale, ma con la stessa partecipazione con cui si andrebbe a un concerto o all'opera. Il che è significativo di una sorta di "nostalgia per la lode", che ci portiamo dentro e non riusciamo ad esprimere, e che quindi deleghiamo ad altri.

"Quanto sono grandi, Signore, le tue opere...": il salmista, che pure è un fine osservatore delle realtà naturali, non può fare a meno di riferirle immediatamente a Dio. Per noi invece, uomini del terzo millennio, che dominiamo il creato con le nostre conoscenze scientifiche, il mondo non parla più di Dio. Non è tuttavia un effetto ineluttabile: l'accrescersi delle conoscenze potrebbe anche portare all'accrescersi dello stupore e della lode.

"Mandi il tuo Spirito, sono creati...": in tutte le realtà create possiamo riscontrare una certa presenza dello Spirito. Lo Spirito ci precede, non siamo chiamati a portarlo, ma ad incontrarlo.

"La mia gioia è nel Signore": dal riconoscimento della presenza dello Spirito nasce e si coltiva la gioia autentica, quella che nel Vangelo i discepoli sperimentano come il dono del Risorto, e che consente loro di affrontare anche le persecuzioni e le difficoltà.

Flash sulla II lettura

"Nessuno può dire: "Gesù è il Signore" se non sotto l'azione dello Spirito Santo": la frase "Gesù è il Signore non è una semplice affermazione informativa, ma una "confessione di fede", una acclamazione, che doveva essere acclamata ritmicamente, proclamata, forse anche cantata. Paolo specifica che ciò suppone un lasciarsi completamente pervadere dal mistero di Cristo, che non è frutto di condizionamento psichico o sociale, ma deriva dall'azione dello Spirito. Così come dallo Spirito derivano i diversi ministeri e incarichi all'interno della Chiesa: "a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune". Paolo ci aiuta in questo modo ad evitare i due opposti rischi in cui può cadere la nostra visione della Chiesa: quella di concepirla in termini unicamente spirituali, carismatici, disincarnati, dimenticando che essa è inserita nella storia, e in una storia di uomini, e che c'è una regola di fede ("uno solo è il Signore; uno solo è lo Spirito; uno solo è Dio..."). Mentre il secondo rischio è di inquadrare la comunità cristiana in termini puramente sociali, riducendo tutto a questioni organizzative. Anche le questioni che potrebbero sembrare organizzative sono legate allo Spirito e suscitate da esso, e sono chiamate a corrispondere alla realtà misterica della Chiesa: "vi sono diversità di carismi... di ministeri... di operazioni... e in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo...".

 

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