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TESTO Una chiesa salvata dai poveri

don Maurizio Prandi

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (08/11/2009)

Vangelo: Mc 12,38-44 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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38Diceva loro nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, 39avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. 40Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».

41Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. 42Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 43Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

Una chiesa salvata dai poveri. Forse questo non è proprio il cuore, il centro dell'annuncio ecclesiale, almeno per quello che concerne gli echi che si odono qui a Cuba, però è la netta sensazione che ho provato ascoltando la prima lettura della liturgia della parola di questa domenica. Sì, perché forse non ci siamo resi ancora conto abbastanza, come chiesa, che i poveri sono la nostra salvezza e non in senso filosofico o filantropico; mi pare questa una verità concretamente supportata dalla Scrittura.

Il profeta Elia, l'uomo di Dio, è perseguitato dalla regina Gezabele (il re aveva costruito un altare a Baal e il popolo, timoroso, segue il re invocando dei pagani; il profeta Elia è il grande difensore del Dio d'Israele, il solo al quale si deve rendere culto) e si rifugia nella terra di origine della sua nemica; nel piccolo villaggio di Zarepta, egli sperimenta fondamentalmente due cose: la prima è che la sua salvezza è legata ad una donna poverissima (possiede il necessario solo per un ultimo pasto con suo figlio), e la seconda è che il Signore si rivela ed è ascoltato anche in terra straniera, nella pagana Fenicia. Bello anche questo: quando il popolo d'Israele si lascia attrarre dalle divinità pagane introdotte da Gezabele, la fede di questa povera vedova, che si traduce in carità consente ad Elia di fortificarsi nel corpo e confermarsi anche nella sua missione di profeta: qualcuno ascolta, qualcuno si fida della parola di Dio, la mia chiamata ha un senso. Bello anche che la fede di questa donna le consenta di farsi prossima ad uno sconosciuto, per di più straniero.

Ed io, oggi, in che cosa mi sono sentito salvato dai poveri? Quando sono uscito nel pomeriggio con le suore colombiane che aiutano me e don Franco nella missione, guardando alla giornata che ininterrottamente ci ha proposto pioggia, pioggia e ancora pioggia, conoscendo un po' la situazione delle comunità che stavamo andando a visitare ho pensato che avremmo fatto ben poco: pioggia, fango, un freddo insolito per queste latitudini diventano un ostacolo quasi insormontabile. Vedere arrivare piano piano le persone, scalze perché con l'acqua e il fango le scarpe si rovinano, senza ombrello perché non ce l'hanno, con il desiderio di ascoltare e di condividere la parola di Dio, ecco, questo per me è salvezza. Rendermi conto che a volte mi abituo alle case che non sono case perché ci piove dentro, ai vestiti che al giro sono sempre gli stessi, ai volti dei presenti ad una celebrazione senza ricordarmi della strada (tanta!) che hanno percorso per arrivare... anche questo accorgermi per me è salvezza.

Un'altra vedova è protagonista del brano di vangelo che abbiamo ascoltato... le due donne che oggi la Scrittura ci fa incontrare sono simbolo intanto di un decentramento totale, nel senso che non pensano minimamente a sé stesse e non pongono se stesse al centro e sono contrapposte alla figura dei farisei che invece fanno di tutto, ma proprio di tutto per essere notati, serviti, riveriti. L'evangelista Marco sintetizza in tre punti l'ipocrisia degli scribi che avevano la presunzione di essere maestri, punti di riferimento: in rapporto a se stessi, le lunghe vesti che indossavano servivano ad indicare che erano autentici uomini di Dio e ritenevano che l'onore a loro rivolto fosse rivolto a Dio stesso; in rapporto ai poveri, rappresentati qui dalle vedove: invece di difenderle e di amministrare i loro beni al meglio, ne approfittavano e divoravano loro anche la casa; in rapporto a Dio, ostentano lunghe preghiere ma in realtà fanno finta di pregare, l'importante è apparire giusti agli occhi della gente (don Giuseppe Dossetti). Gesù in modo molto solenne chiama i suoi discepoli per dire loro chi è il vero maestro: una povera vedova che si avvicina per versare una somma irrisoria. La scena è poco appariscente: una vedova che getta due monete (la traduzione spagnola scrivendo: dos monedas de muy poco valor rinforza l'idea e aiuta a capire meglio) nel tesoro del Tempio non fa certamente notizia ma è da lei, donna, povera e insignificante, che, secondo Gesù, i discepoli sono chiamati ad imparare la lezione più importante del vangelo. Essa infatti ha gettato tutto quello che aveva, tutta la sua vita.

Leggendo poi alcune righe di un teologo mi ritrovavo molto anche in questa intuizione: questa vedova mi racconta Dio, il suo volto, la sua essenza. Dio Padre è come lei perché ha gettato nel tesoro del tempio tutto quello che aveva: il suo Figlio Unigenito, donato per il tempio, per la dimora che siamo ognuno di noi. Pensate anche a quanto provocante è questo esempio in una società (ma qui i tempi, e le società anche, non sono cambiati), maschilista come quella del tempo di Gesù, quando si riteneva che una donna avesse poco da insegnare in ordine all'obbedienza alla Toràh, tanto meno una vedova, considerata ai margini della vita sociale e in qualche modo non pienamente benedetta da Dio. E mi viene in mente quanto altre volte detto, cioè che credo che anche Gesù un po' abbia imparato da questa vedova: ha imparato che la vita ha senso se è gettata, donata, regalata. O per lo meno, in lei ha incontrato qualcuno che la pensa esattamente come lui.

E io, che cosa imparo dai poveri? Che cosa restituirò alla mia chiesa Diocesana che chiedendomi di fare questa esperienza di missione in terra cubana sono certo desidera accogliere "il magistero dei poveri" per lasciarsi da esso cambiare e trasformare?. Il desiderio è quello di vivere da cristiano, cosa che mi pare non sono ancora capace di fare e allora mi affido alle parole di don Daniele Simonazzi, che per la povertà concreta della sua vita le può pronunciare senza arrossire (io lo farei subito), per la vergogna: Il cristianesimo non è questione di parole difficili o di discorsi complicati: è una persona concreta, Gesù, ciò che lui fa e ci insegna a fare. Ma dove lo vediamo, dove possiamo leggerne i lineamenti se non nei poveri, in coloro nei quali lui si identifica? Gesù chiama i suoi discepoli a guardare e capire la "povera vedova" che, nella sua povertà, fa dono di tutto quello che ha, di tutta la sua vita. Da questo si impara il vangelo. Lo si impara da coloro con i quali nessuno vorrebbe identificarsi: dai poveri, dai disprezzati, come Cristo. Costoro, come Cristo, si donano, si sprecano, danno tutta la loro vita e pagano per tutti. Per imparare il vangelo di Gesù dobbiamo metterci alla scuola dei poveri.

Un abbraccio grande a tutti, un pensiero particolare a Grazia e a Francesco per la loro vicinanza e condivisione della parola di Dio. maurizioprandi@obistclara.co.cu

 

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